III. La formazione del tomismo

1. Il problema delle fonti

Il problema delle fonti nel pensiero tomista è capitale e costituisce la chiave per la comprensione della sua formazione. Si tratta d’individuare anzitutto i testi ed eventualmente le versioni (dal greco e dall’arabo) che s. T. effettivamente ebbe presenti; poi occorre rilevare il contesto dottrinale preciso secondo il quale tali fonti influirono nello sviluppo del pensiero tomista; infine si dovrebbero indicare le altre interpretazioni che dette fonti ebbero nell’ambiente culturale del medioevo, per poter fare un bilancio esatto dell’opera dottrinale del Santo.

Per il primo punto si può dire che la novità rivoluzionaria della biblioteca del sec. XIII era stata la traduzione delle opere di filosofia naturale e di metafisica, di etica e politica di Aristotele: il fatto che s. T. appena adolescente frequentò all’Università di Napoli il testo diretto della logica e della filosofia naturale con i maestri Martino di Dacia e Pietro d’Irlanda può essere considerato un momento decisivo nel suo orientamento futuro a favore dell’aristotelismo, rompendo con il platonismo della tradizione agostiniana. L’Angelico poteva conoscere direttamente di Platone il Timeo nella versione-commento di Calcidio (che ispira il platonismo umanista della scuola di Chartres) e forse anche il Fedone e il Menone; la dottrina platonica era diffusa anche dalle opere di Cicerone e specialmente nel commento al Somnium Scipionis di Macrobio; la fonte però principale del platonismo medievale è stato s. Agostino (cf. De Trin., l. VII; De Civ. Dei, ll. VIII-X) e ciò deve orientare circa il senso preciso dell’antitesi platonismo-aristotelismo che domina il medioevo e sta al centro dell’attività di s. T. e delle pole|miche suscitate dalla sua opera. Perchè è noto che s. Agostino non lesse direttamente alcuna opera di Platone e conobbe il platonismo della tarda elaborazione di Plotino, le cui Enneadi erano state tradotte dal retore Mario Vittorino al quale si può riconoscere di aver accostato i termini e i problemi della speculazione neoplatonica alla teologia cristiana dell’Occidente (cf. E. Benz, Marius Victorinus u. die Entwicklung der abendländ. Willensmetaphysik, in Forsch. z. Kirche u. Geistesgesch., I, Stoccarda 1932, spec. pp. 39 sgg., 343 sgg.). In questo contesto storico la tesi comune, esposta dal Baeumker, che il platonismo è dominante nel sec. XII, regredisce nel sec. XIII per riprendere vigore nell’Umanesimo1 enunzia il semplice fatto storico, ma non ne precisa la misura e il suo effettivo significato culturale. Se si può riconoscere che realmente le lotte dottrinali del medioevo si pongono intorno all’alternativa Platone-Aristotele, si deve ammettere che il Platone autentico (quello del rigido dualismo, del kth/ma, del cwrismo,j fra apparenza e realtà, fra mondo sensibile e idee), è assente. L’alternativa si riduce piuttosto tra Plotino (o neoplatonismo in genere) e Aristotele dove il divario tra Plotino che concepisce l’emanazione necessaria e resta monista della trascendenza e Platone dualista che crea i miti del Demiurgo e dell’anima, è forse maggiore di quello tra Plotino e Aristotele, monista dell’immanenza che non riconosce i miti nè alcuna trascendenza2. Nelle controversie perciò del sec. XIII Platone è fuori causa e ciò spiega perchè una mente critica come s. T. avesse avuto il proposito, come consta dalla Lettera della facoltà delle arti del 10 maggio 1274, di dare un commento o studio diretto del Timeo platonico: tale commento avrebbe certamente dato la chiave per comprendere i principi ispiratori della metafisica tomista nella sua ultima fase circa i quali, come si dirà, la scuola tomista non ha fatto ancora piena luce. Si comprende pertanto che l’Angelico non ebbe a disposizione che scarsi elementi, insufficienti per tentare un’interpretazione di Platone, a differenza di quanto egli potè fare per Aristotele. Fonte principale per la conoscenza di Platone, come per tutta la filosofia prearistotelica, è stata per s. T. lo stesso Ari|stotele nelle introduzioni ai suoi trattati (cf. il I l. della Et. Nic., della Metaph., del De An., del De Gen. et Corr.), dove ormai le teorie si trovano semplificate e in qualche modo piegate per dare maggior risalto all’opposizione polemica.

Il secondo fatto capitale delle fonti del pensiero tomista, in merito all’alternativa Platone-Aristotele, è dato dalla complessa sovrastruttura d’influssi d’ispirazione neoplatonizzante che sono intervenuti nel dibattito. Primo fra tutti s. Agostino stesso con il peso della sua autorità di maestro indiscusso della teologia medievale, che s. Tommaso accetta non meno dei suoi contemporanei, specialmente nelle questioni riguardanti la teologia trinitaria, il peccato e la Grazia. Più delicato è il rapporto fra i due dottori nelle questioni puramente filosofiche dove l’aristotelismo tomista non poteva accettare compromessi: tuttavia egli accetta le dottrine fondamentali del trascendentalismo causale e dell’esemplarismo divino, dove il contrasto inevitabile con i capisaldi del pensiero aristotelico è abilmente superato mediante quell’interpretazione «sintetica» di cui si dirà3. Le controversie recenti riguardanti l’accordo fra s. Agostino neoplatonico e s. T. aristotelico non hanno dato risultati apprezzabili, nè li possono dare perchè la funzione dottrinale dei due dottori si pone in due epoche di cultura, l’antica e la medievale, che non sono commensurabili per il confronto che si vuole istituire e lo stesso s. T. ci fornisce sufficienti criteri (cf. In II Sent., 13, q. I, a. 3 ad l; Sum. Theol., 1a, q. 15 De ideis; ibid., q. 77, a. 5 ad 3; ibid., q. 84, a. 5; ibid., q. 85, a. 2, ecc.). Tuttavia s. T. è ben consapevole del platonismo di s. Agostino e ne mette in rilievo l’opera di purificazione circa le dottrine eterodosse inammissibili per la fede cristiana, quali l’esistenza delle «idee separate» (Sum. Theol., 1a, q. 84, a. 5): la metafisica della partecipazione esposta dai due dottori esprime la struttura, per dir così, trascendentale dell’ente finito nella sua dipendenza da Dio (cf. De spir. cr., a. l0 ad 8: «Non multum refert dicere quod ipsa intelligibilia participantur a Deo vel quod lumen faciens intelligibilia participatur a Deo». La prima è la soluzione di s. Agostino, la seconda è quella di s. T. che assimila la dottrina aristotelica dell’intelletto agente)4. Perciò la| controversia, agitata negli ambienti neoscolastici, circa l’accordo o la divergenza fra questi due massimi dottori della Chiesa, non deve presentare un compito polemico ma soltanto esegetico: i due atteggiamenti dottrinali corrispondono a due momenti differenti della cultura cristiana così che questioni come quella di chiedere se s. Agostino abbia ammesso la dottrina dell’astrazione tomista o se concepisca l’anima spirituale come forma sostanziale del corpo in senso aristotelico-tomista non sono suscettibili di alcuna precisa risposta perchè la diversa prospettiva culturale non permette l’alternativa di una risposta5. La profonda trasformazione della dottrina agostiniana a contatto con l’aristotelismo è spesso mascherata da s. T.: si ha l’impressione che la maggior parte degli errori della metafisica della scuola agostinista egli li attribuisca all’estrinsecismo di Avicenna e di M. Maimonide e al realismo esagerato dell’ebreo Avicebron6. Un esempio sconcertante ma significativo del carattere sintetico dell’esegesi tomista è il prologo alla responsio dell’art. 1 della Q. de spir. creat. dove s. T. fa precedere l’autorità di s. Agostino a quella di Aristotele per il concetto metafisico della materia prima come «pura potenza» («… ut patet per Augustinum XII Confess. et I Super Gen. ad litt. et per Philosophum in VII Metaph.», ed. L. W. Keeler, p. 10, l. 2-5).

Più originale è il rapporto di s. T. all’altra fonte del neoplatonismo teologico ch’è lo Ps. Dionigi il cui influsso eguaglia e in alcuni problemi supera quello di s. Agostino medesimo. S. T. commentò del Corpus Dionysianum soltanto il De divinis nominibus, attenendosi – come per i commenti ad Aristotele e alla Scrittura – al metodo letterale: notevole è lo sforzo del Santo per trovare, fra le diverse versioni, la lezione più intelligibile che di solito è quella della traduzione del Sarrazin7. L’influsso dello Ps. Dionigi è in profondità e interessa i problemi più ardui della metafisica quali la dottrina dei trascendentali e dell’analogia, la conoscenza di Dio| (la teologia affermativa e negativa) e il problema del male; questo Dionigi poi secondo s. T. ha meglio di tutti sfrondato l’errore della filosofia platonica e inserito il nucleo profondo della sua verità nella teologia cristiana (cf. le dichiarazioni di s. T. nel Prol. al Commento al De div. nom. e specialmente nel De subst. separ., c. 17). È specialmente nell’atmosfera dei testi dionisiani, densi di profonde risonanze mistiche e di continue istanze di trascendenza, che s. T. ha vissuto quella conciliazione fra il platonismo e la verità cristiana che lo farà ardito a incorporare il principio metodico (non il metodo!) del platonismo dentro una metafisica elaborata ed espressa con principi aristotelici. Che questo sia stato il preciso intento lo mostrano anzitutto le 1700 citazioni esplicite dello Ps. Dionigi che ricorrono nelle sue opere8 così che la sua autorità è chiamata a dire l’ultima parola, ad es., in merito alla teologia del De Causis: «Hanc autem positionem corrigit Dionysius quantum ad hoc quod ponebant (Platonici) diversas formas separatas quas dicebant deos, et aliud per se bonitas, et aliud per se esse, et aliud per se vita et sic de aliis. Oportet autem dicere quod omnia ista sunt essentialiter ipsa prima omnium causa»… (In l. De Causis, lect. 3a; ed. Saffrey, p. 20, l. 5 ss). Un altro segno dell’eccezionale valore teoretico che ha la speculazione dionisiana nel tomismo sta nella preoccupazione di sconfessare le interpretazioni eterodosse nel senso del panteismo formale della scuola di Chartres che gli fa porre per tempo la questione: «Utrum Deus sit esse omnium rerum» (In I Sent., dist. 8, q. 1, a. 2); nella Sum. c. Gent., I, 26: Quod Deus non est esse formale omnium. Il Santo protesta contro l’«intellectus perversus» che alcuni hanno fatto dell’espressione dionisiana: Deus est esse existentibus (De div. nom., § 4: PG 3, 818) facendo aperta violenza al contesto (a questa energica rettifica di s. T. si riferisce espressamente il Cusano in Apol. doctae ignorantiae, ed. R. Klibansky, Lipsiae 1932, p. 17, 13). Ancora, l’affermazione dionisiana, ispirata al più schietto platonismo del primato del bene sull’ente, viene espressamente accolta da s. T. come il principio dell’ordine dinamico («in causando»: Sum. Theol., 1a, q. 5, a. 2 ad 1) in virtù del quale la stessa «materia prima», ch’è detta non-ens, ha potuto esser creata da Dio (sul primato del bene sull’essere, v. Q. de malo, q. I, a. 2. Anche In l. De Causis, lect. 4, ed. cit. p. 28, 10: «Dionysius… in c. 4 De div. nom. praeordinat nomen boni in Deo omnibus divinis nominibus et dicit| quod eius participatio usque ad non ens extenditur, intelligens per non-ens materiam primam»). Infine è dionisiano il «principio dei gradi» o della continuità decrescente delle forme dell’essere secondo cui «gli estremi si toccano» ovvero: semper fines primorum coniungens principiis secundorum (PG 3, 872) che s. T. rende con espressione più trasparente: Supremum infimi attingit infimum supremi (Q. De Spir. creat., a. 2; ed. L. W. Keeler, p. 29, 5) che gli dà una chiave preziosa per sfuggire al trabocchetto dell’averroismo.

L’ultimo gruppo di fonti metafisiche è costituito da Boezio, dal De Causis e da Avicenna ai quali si deve il suggerimento diretto della tesi capitale della metafisica tomista qual’è la distinzione reale fra l’essenza e l’atto di essere nelle creature (cf. De Verit., q. 21, a. 5; De Pot., q. 3, a. 5): qui è maturata quella nozione di partecipazione che, inserita da s. T. nella metafisica aristotelica, la solleva all’affermazione della totale dipendenza della creatura dal creatore e integra il concetto aristotelico di causalità come processo di alterità e distinzione con quello platonico di «presenza» e «somiglianza». A Boezio si deve per primo fra i latini il progetto di tradurre tutte le opere di Aristotele e i Dialoghi di Platone e di mostrare l’accordo fondamentale dei due pensatori9. Da Boezio inoltre s. T. ha attinto sul testo del De Hebdomadibus la dottrina fondamentale che la struttura del concreto, in ogni suo livello predicamentale e trascendentale, è secondo una partecipazione: il fatto poi che Boezio sia stato il primo maestro dell’aristotelismo medievale, prima con le versioni e poi nel rigore del metodo logico e nella metodologia e terminologia scientifica, suggerisce la constatazione che il tema della sintesi di Platone e Aristotele è l’elemento fondamentale, variamente operante ma dovunque presente, nella rinascita culturale dell’Europa. Frutto dell’alto magistero di Boezio e da lui ispirato è il commento tomista al De Trinitate (conservato in parte nell’autografo vaticano): in esso s. T. affronta il problema della scienza, della divisione dei vari campi del sapere e del metodo scientifico: dalla filosofia naturale, alla matematica, fino alla teologia con un’ampiezza e precisione che non si riscontra in nessuna delle altre sue opere. Il De Causis, una volta riconosciutane la vera origine e l’indole neoplatonica, ha impegnato s. T. all’ultimo accostamento della metafisica platonica della trascendenza con quella aristotelica dell’immanenza: il com|mento tomista dell’opuscolo (le edizioni comuni sono molto scorrette) contiene elementi di eccezionale interesse speculativo per una teoria dell’essere il cui contenuto è decisamente platonico dentro la solida armatura aristotelica. Il commento ha inoltre il pregio di mettere a frequente confronto il De Causis con s. Agostino e lo Ps. Dionigi (cf. le proposizioni 2, 3, 4, 5, 6, 9, 10, 14, 16, 19) per ribadire il superamento della concezione platonica della «separazione» a cui, come nota espressamente s. T., è rimasto fedele anche Proclo, ma non l’autore del De Causis per il quale – come per i cristiani – tutto fa capo a Dio (lect. 16; ed. cit., p. 95, 6). Sarebbe quanto mai istruttivo, allo scopo di chiarire l’originalità del tomismo, poter mettere a confronto quello tomista con gli altri commenti medievali al De Causis ed in particolare, ad es., con quello del maestro di s. T., Alberto Magno (si trova nel t. X dell’ed. Borgnet, Parigi 1891. Alberto si mostra incertissimo sull’autore dell’opuscolo e non ha alcun sospetto sulla dipendenza da Proclo. Il commento è diviso in 2 libri, ogni libro contiene vari trattati e ogni trattato comprende diversi capitoli) e con quello di Egidio Romano, che fu suo discepolo a Parigi, il quale vuol precisare che l’autore dell’opuscolo è Alfarabi10. Alle prop. 12, f. 40 v., si legge la dichiarazione: «Liber iste extractus est ex libro Procli et est totus platonicus». Si può rilevare, fra l’altro, un’allusione polemica di Egidio al commento tomista nel commento della prop. IV, alla fine: «Notandum quod secundum quosdam per dicta huius authoris potest solvi ratio commentatoris ponentis unitatem intellectus. Voluit commentator quod unius et eiusdem rei non plurificaretur species, nisi propter materiam… At patet per authorem istum quod possunt plurificari species intelligibiles propter diversitatem recipientium, dato quod illa recipentia non sint materialia, ut in diversis substantiis sunt diversae species intelligibiles, quamvis substantiae immateriales existant» (ed. cit., f. 18 r.). S. T. però aveva scritto esattamente il contrario e il discepolo non sembra molto perspicace (Lect., IV di s. T., ed. cit., p. 29, 25 ss. La data del Commento egidiano è: A. D. MCC nonag., Die Mercurii ante Purif. B. M. V.; col 112 r.).

Ultimo in questo elenco di fonti neoplatoniche, ma primo con Aristotele nella formazione del pensiero tomista, è Avicenna, conosciuto per tempo nel sec. XIII grazie alla traduzione di Gerardo da Cremona. La presenza di Avicenna è continua, ma seguendo le| citazioni di s. T. si ha la chiara impressione che mentre nelle prime opere (Comm. alle Sent., De Ente et essent., De Veritate11) il suo influsso è predominante, nelle opere della maturità subisce un notevole ribasso (cf. l’aspra critica del De Subst. sep., c. 10). Tuttavia l’influsso di Avicenna è stato notevole nei momenti cruciali della metafisica tomista:

1) La soluzione tomista del problema degli universali (cf. Quodl., VIII, q. I, a. 1) ed è riferita ad Avicenna la teoria della corrispondenza fra la composizione logica di genere e differenza e la composizione metafisica di materia e forma12.

2) La distinzione reale nelle creature fra essenza e atto di essere è affermata da s. T. nelle prime opere con una dipendenza verbale dal testo avicenniano (cfr. In I Sent., dist. 8, q. 5, a. 1: l’art. compendia Avicenna, Metaph., tr. III, c. 8 e tr. V, c. 3, e prima q. IV, a. 2 l’art. riassume Avicenna, Metaph., tr. V, c. 4 e tr. IX, c. 1 e nello ad 2 si rimanda a Metaph., tr. II, c. 1 e tr. III, c. 8: per la distinzione reale). La posizione tomista però denunzia presto la concezione estrinsecista che Avicenna si fa dello esse come «accidens additum», a cui oppone l’essere come «actus substantiae» (In IV Metaph., lect. II, n. 55613). Altra dottrina avicenniana connessa con questo caposaldo dal tomismo è la distinzione di possibile esse proprio della creatura e di necesse esse proprio di Dio che ispira certamente la III via tomista nella dimostrazione dell’esistenza di Dio (spec. nella C. Gent., I, 15; sembra che l’esposizione della Sum. Theol., 1a, q. 2, a. 3 s’ispiri a M. Maimonide). Però anche in questo punto s. T. si scosta notevolmente da Avicenna in quanto attribuisce (con Averroè) una forma di necesse esse, dipentente da Dio, alle creature spirituali.

3) La distinzione fra le cause tou/ fieri e le cause tou/ esse: una distinzione che sta a fondamento di tutta la metafisica tomista della causalità. Anche a questo riguardo s. T. denunzierà| l’estrinsecismo della dottrina avicenniana del «Dator formarum» e svolgerà da una parte il principio aristotelico dell’immanenza predicamentale che «omne agens agit sibi simile, quia agit per formam…» e dall’altra il principio d’immanenza trascendentale del De causis: «Causa prima plus influit in effectum quam causa secunda…» (prop. 1; ed. Bardenhewer, p. 163).

Questi dati critico-testuali impongono due conclusioni: 1) s. T. intende e dichiara di voler dare la concezione aristotelica del reale. La sua attività di commentatore delle opere principali del filosofo, intesa soprattutto alla ricerca della lezione più genuina del testo e del suo senso diretto, convalida la sua adesione all’aristotelismo ch’è incondizionata per quanto riguarda l’orientamento teoretico fondamentale, sia quanto al contenuto dell’essere sia rispetto al metodo per esprimerlo nella definizione della verità. 2) S. T. d’altronde introduce fin da principio e intensifica precisando con maggiore consapevolezza critica un complesso di tesi, principi e spunti metodologici di evidente derivazione platonica o – più esattamente – neoplatonica: ciò porta a dare alla speculazione come scopo immediato quello di operare l’accordo fra Platone e Aristotele attorno al quale attende con intenso fervore speculativo l’ultimo s. Tommaso (cf. De Subst. sep., c. 2: In quo conveniunt Plato et Aristoteles; c. 3: In quo differunt…). Quest’atteggiamento, ch’è decisivo per un’interpretazione del tomismo, è suggerito anzitutto all’Angelico da Boezio, ma prende corpo e senso esplicito nella sua mente specialmente negli ultimi scritti quando prende conoscenza diretta dei grandi Commentari ad Aristotele tradotti dal generoso fra’ G. di Moerbeke. Alessandro di Afrodisia aveva denunziato drasticamente l’irriducibilità fra le concezioni di Platone e Aristotele14; ma prevalse contro di lui l’indirizzo neoplatonico, raccolto da Simplicio, di un accordo sostanziale fra i due filosofi sul fondo dei problemi così che la polemica antiplatonica di Aristotele riguarda unicamente la «terminologia» più poetica che filosofica di Platone15. Fra gli Arabi è Alfarabi, maestro di Avicenna che continua l’impresa| di mostrare l’accordo dei due filosofi, ciò che doveva essere il prologo dell’accordo fra la ragione e il monoteismo coranico: il fatto che il neoplatonico misticheggiante Avicenna abbia avuto una posizione di privilegio nella maggior parte della scolastica e che lo stesso s. T., soprattutto nelle opere della gioventù, gli conceda grande favore, dimostra all’evidenza che l’aristotelismo medievale era volto verso la «sintesi» e non per la «crisi» dei due filosofi. Di fatto l’Angelico alla fine si accorse, sul testo di Simplicio, della discordanza fra i commentatori greci; ma nell’impossibilità in cui si trovava di dare una propria interpretazione di Platone, si rassegnò anch’egli all’interpretazione sincretista di Simplicio (cf. In I De Coelo et mundo, lect. 22; ed. Parm. t. XIX, p. 58 b). Così nell’opera di s. T., considerata nel suo sviluppo storico, si presenta il paradosso che il suo aristotelismo è assai più intransigente nelle formole all’inizio quando tuttavia il suo pensiero subì notevolmente l’influsso di s. Agostino, di Avicenna, ecc., che quando nell’età matura conobbe a fondo le opere del filosofo e si cimentò contro l’averroismo latino. Ciò ha prestato il fianco a P. Duhem16 per accusare di artificiosità la sintesi tomista; ma a torto, perchè tale sintesi è stata compiuta in funzione di una tradizione di pensiero ritrovata dall’Angelico in continuità della filosofia classica e da lui allargata nel clima cristiano per superare il punto morto del pensiero classico con l’antitesi Platone-Aristotele.

2. Il «metodo letterale» dei Commenti

 Non v’è dubbio che l’originalità dell’innovazione dottrinale di s. T. ha per principale causa la conoscenza e l’assimilazione degli scritti di Aristotele. Infatti a differenza di Alberto Magno, che come Avicenna usa la parafrasi, s. T. adotta, con Averroè, il metodo letterale. La prima preoccupazione nei commenti tomisti (e il principio vale per tutti i commenti sia biblici come dottrinali) è di cogliere il senso diretto della littera del filosofo che a quell’epoca per via delle traduzioni varie, incomplete e spesso discordanti, non era impresa sempre facile (cf. In Periherm., l. I, lect. 5, n. 20; ed. Leon., I, 28 a; … «Et ideo ut magis sequamur verba Aristotelis…»); s. T. ha cura di mostrare poi la «struttura» che ha il periodo nel capitolo, il capitolo nel libro e il libro nel complesso dell’opera intera e del Corpus Ari|stotelicum con un intento critico che nessun commentore cercò ed ebbe prima di lui; per ogni libro, trattato e capitolo egli dà il prospetto della materia nel suo articolarsi interiore (cf. il piano delle opere logiche, In Post. Anal., l. I, lect. 1; per la filosofia naturale, v. In I Physic., lect. 1). La intentio Aristotelis, a cui egli mira, scaturisce dalla critica del testo e dal dominio dei principi che, anche senza l’uso diretto del testo greco e disponendo di versioni tutt’altro che luminose, gli fa intravvedere quasi sempre l’esatto pensiero del filosofo con una sicurezza che ancor oggi stupisce: «Patet igitur praedicta verba Philosophi diligenter consideranti quod non est intentio eius excludere a Deo simpliciter aliarum rerum cognitionem» (De subst. sep., c. 13; ed. De Maria, t. III, p. 251; ed. Perrier, c. 12, n. 77, p. 174). Perciò s. T. può rimproverare ad Averroè, sulla base dell’analisi del contesto, di non aver afferrato il metodo del filosofo… «quia non coniungit totum ad unam intentionem» (In I Physic., lect. I; ed. Parm., t. XVIII, p. 228 a). Il commento letterale è spesso integrato da opportune questioni su alcuni punti dibattuti: queste disgressioni, rare nei primi commenti, divennero preponderanti negli ultimi, grazie all’approfondimento dei commenti di Averroè e alla conoscenza dei grandi commentatori greci17. In particolare il commento tomista alla Metafisica è giudicato superiore a qualsiasi altro per il dominio che s. Tommaso mostra di questa opera ch’è la più ardua che mai esista (cf. E. Rolfes, Arist. Metaphysik, I, Lipsia 1904, Einleitung, p. 15 e 17). Evidentemente per poter afferrare l’importanza dei «commenti» tomisti (o meglio expositiones) del testo aristotelico occorre aver presente la versione latina (o le varie versioni) che s. T. tiene presenti e alle volte espressamente discute (a questa indagine critica può egregiamente servire con preziose indicazioni il primo volume dello Arist. latinus [Roma 1939]). Va notato l’influsso preponderante di Boezio sui commenti tomisti ad Aristotele18. Questa ricerca del genuino senso del testo aristotelico gli meritò l’alta considerazione del capo dell’averroismo latino Sigieri di Brabante19. L’enciclopedico Enrico Bates di Mali|nes lo chiama «famosus expositor»20 e questo titolo di «expositor» gli è attribuito per tutto il medioevo, come ad Averroè si dava quello di «commentator». Questa tradizione è attestata all’inizio del sec. XV da fra’ Luigi di Valladolid il quale, dopo aver elencati i commenti aristotelici di s. T., aggiunge: «In exponendo autem litteraliter Aristotelem non habuit aequalem, unde a philosophis expositor per excellentiam nominatur»21. Agostino Nifo, convertitosi dall’averroismo senza dubbio soprattutto per merito del commento tomista, riconosce espressamente a s. T. il primato fra i commentatori anche sopra gli stessi greci: «Hunc Thomam Aquinatem non modo in his Physicis commentationibus, sed in omnibus aliis fidum ducem, cui etiam non ab re nomen expositoris tributum est. Isto enim (pace graecorum expositorum dixerim) curiosior atque uberior, aut (quod raro est) clarior inventus est nemo» (Praef. in comm. super VIII lib. Physic., Venezia 1549, fol. 2; cf. anche la Praef. alle Disput. Metaphys.; Venezia 1559, fol. 1 a; fol. 4 b: «Thomas noster»; 88 a; 129 b; il Nifo nomina «Expositor senex et expositor novus»). «Antiquus expositor» è detto s. T. da Giovanni di Jandun (cf. Quaest. in XII ll. Metaph., l. IV, q. 3: Venezia 1560, fol. 236. Specialmente disp. XIII del l. VII, fol. 206 b: «Expositor Thomas raro aut numquam dissentit a doctrina peripatetica, fuit enim totus peripateticus et omni studio peripateticus, et numquam aliud voluit nisi quod peripatetici»; v. anche del Nifo, In XII Met., Venezia 1518, fol. 21 v. a; In l. de subst. orbis, Venezia 1519, fol. 5 v. b). Questa fedeltà al testo aristotelico del commento di s. T. è stata invece energicamente contestata dal successore di Sigieri nella direzione dell’averroismo, Giovanni di Jandun, il quale dichiara che s. T. …«in omnibus aut pluribus in quibus potuit conatus fuit contradicere Commentatori…» ma protesta: «Dico quod ego non credo ei in hoc sicut nec in aliis conclusionibus philosophicis in quibus contradicit Commentatori» (J. de Jandun, Quaest. in lib. phys., l. VII, q. II, ed. veneta 1501, fol. 89 ab). Il discredito è esplicito nella controversia sull’unità della forma: lo Jandun che sta per la pluralità proclama che quest’opinione fu insegnata da Aristo|tele e Averroè: …«immo illa positio aliquando fuit famosa apud omnes antiquiores: sed post tempus Alberti et Thomae aliquantulum facta est improbabilis propter eorum famositatem et propter quasdam rationes eorum superficiales» (op. cit., l. VIII, q. 11; fol. 107 a). L’acredine del Jandun verso s. T. per tanta sconfitta è rilevata e rintuzzata dallo stesso Nifo, buon conoscitore di cose averroiste: «Hoc est divi Thomae decretum, qui (pace aliorum dixerim) omnibus Aristotelis interpretibus est praeferendus. Verum Gandavensis, doctor malignus et erroneus, evaginato gladio et quidem bene acuto, contra decretum istud verissimum digladiatur»22. Il saggio più maturo dell’acribia critica e testuale di s. T. nell’interpretazione di Aristotele è certamente la prima parte del De unitate intellectus contra averroistas (c. 1 §§ 3-50, ed. L. W. Keeler; §§ 2-22, ed. J. Perrier); specialmente gli ultimi commenti tomisti spiccano per i frequenti sondaggi in profondità nel testo aristotelico (cf. In Periherm., lect. 5: sul concetto di esse. In I De coelo et mundo, lect. 5: sulla natura dei corpi celesti, ecc.). La ricchezza di pensiero prodigata da s. T. nei suoi commenti aristotelici ha ancora da essere in gran parte conosciuta mediante uno studio continuo e metodico ch’è indispensabile per l’esposizione compiuta e organica del suo pensiero.

3. Lo spirito critico

Lo spirito critico, benchè vivo e costante in s. T. e superiore al suo tempo, non potè produrre l’impossibile: così per tutta la vita anch’egli, con i suoi contemporanei, accettò la paternità di Dionigi Areopagita per il corpus dionysianum e di alcune opere falsamente attribuite a s. Agostino. Ma è suo merito personale anzitutto di aver stimolato fra’ Guglielmo di Moerbeke alla revisione delle precedenti traduzioni di Aristotele e alla nuova traduzione delle Opere più importanti del Filosofo come anche dei Commentari greci e di Proclo (cf. la dedica ad Urbano IV della Catena sup. Matth. S. T. che lamenta il disagio nell’uso dell’Omiliario di S. Giovanni Crisostomo «propter hoc quod est translatio vitiosa» e l’altra dedica al card. Annibalbo per la «Catena» degli altri tre Vangeli dichiara che «ut magis integra et continua praedicta sanctorum expositio redderetur, quasdam expositiones Doctorum graecorum in latinum feci transferri»: Catena aurea, ed. A. Guarienti, Torino 1953, t. I, p. 4; t. II, p. 429). Special merito s. T. si gua|dagnò per aver individuato l’origine del celebrato opuscolo De Causis: prima è attribuito al Filosofo (In I Sent., dist. 8, q. I, a. 2 contra), poi sorgono i dubbi ed è citato senza nome di autore (Quodl. V, a. 7); infine è detto un compendio arabo della Teologia di Proclo in base a un preciso confronto fatto sulla traduzione del Moerbeke – da lui sollecitata – di ogni proposizione dell’opuscolo con i paragrafi dell’opera procliana23. Un altro pseudoepigrafo ch’ebbe molta fortuna come «autorità» nella controversia della «materia spiritualis» e quindi anche della pluralità delle forme sostanziali, era l’opuscolo De unitate et uno, attribuito a Boezio nelle edizioni del ’500 e persino nel Migne (PL 63, 1076 sgg.). Nel Commento alle Sentenze (l. I, dist. 24, q. I, a. 1; ed. Mandonnet, t. I, Parigi 1929, p. 576), s. T. l’attribuisce espressamente a Boezio; ma già nel Quodlib. IX, q. III, a. 6, ad 2: «Liber ille non est Boethii, unde non oportet quod in auctoritatem recipiatur»; nell’età matura la diffida ha un rilievo critico esplicito: «Liber de unitate et uno non est Boethii, ut ipse stilus indicat» (Q. de spir. cr. a. 1 ad 21; ed. L. W. Keeler, Roma 1936, p. 18, 21). È noto che l’opuscolo è una compilazione fatta da D. Gundissalvi24. Altrettanto occorre dire dell’altro opuscolo De spiritu et anima, attribuito a s. Agostino dai medesimi fautori della pluralità delle forme (e come tale in: PL 40, 779 sgg.) che s. Tommaso sospetta presto per spurio («Liber ille non est Augustinus nec est multum authenticus»: De Spir. cr. a. 3 ad 6. E più avanti, a 11 ad 2: «Liber De Spiritu et anima est apocriphus, cum enim auctor ignoretur; et sunt ibi multa vel falso vel improprie dicta; quia ille qui librum composuit, non intellexit dicta sanctorum a quibus accipere conatus fuit». Ed. cit. L. W. Keeler, p. 46, 14 e 144, 5). Si avvicina all’identificazione del vero autore nella Q. De anima, a. 9 ad 1 e spec. a. 12, ad 1: «Liber iste De spiritu et anima non est Augustini, sed dicitur cuiusdam Cisterciensis fuisse, nec est multum curandum de his quae in eo dicuntur». Difatti la moderna critica l’attribuisce ad Alchero di Chiaravalle. Parimenti l’opera De ecclesiasticis dogmatibus è restituita a Gennadio di Marsiglia (Quodl. XII, a. 10), che ebbe grande autorità nel medioevo, e l’opuscolo De| mirabilibus Sacrae Scripturae attribuito a s. Agostino è respinto da s. T. (Sum. Theol., 3a, q. 45, a. 3, ad 2). Nella 3a parte della Sum. Theol. s. T. cita direttamente le opere di s. Cirillo d’Alessandria; nel l. IV C. Gent. cita gli atti dei Concili di Efeso e di Calcedonia, nella Q. De Verbi Incarnati e nella III pars cita anche gli atti del II Concilio Costantinopolitano appena trovati (cf. III, q. II; aa. 1, 2, 3…) dallo stesso s. T.; e va messa in rilievo l’importanza crescente che ha nella teologia l’opera di s. Giovanni Damasceno. L’Angelico, come nella conoscenza del testo genuino di Aristotele e dei suoi commentatori greci in filosofia, così in teologia nella conoscenza dei Padri greci e dei concili avanza tutti i suoi contemporanei e non essi soltanto25. È a questa novità di metodo e di problemi che si deve l’improvvisa e incontrastata fama che lo accolse, giovane bacelliere, a Parigi «(ita) ut omnes etiam Magistros videretur excedere» (G. di Tocco, Vita…, ed. cit., c. XIV, p. 81).

Note

1 Cl. Baeumker, Der Platonismus im Mittelalter, in Studien u. Charakteristiken, Baeumkers Beiträge…, 25 (1928), p. 58 sgg.

2 E. Hoffmann, Platonismus und Mittelalter, in Wartburger Vorträge 1923-24, Berlino 1926, spec. p. 71 sgg.

3 Sulla sintesi tomista di Agostino e Aristotele, v. M. Grabmann, Des hl. August. quaest. de Ideis in ihrer inhaltl. Bedeutung u. mittelalt. Weiterwirkung, in Mittelalt. Geistesleben, parte 2a, Monaco 1936, p. 32.

4 Sulla natura della dipendenza di s. T. da s. Agostino, v. G. von Hertling, Augustinuszitate bei Th. v. A., in Sitzungsb. d. philos.-philol. u. hist. Klasse der kais.| Bayer. Akad. d. Wissensch., Monaco 1914, pp. 535-602; ripr. in Hist. Beitr. z. Philos., Kempten-Monaco 1914, pp. 97-151.

5 B. Kaelin, Die Erkenntnislehre des hl. Aug., Sarnen 1921, p. 42; la teoria dell’astrazione dell’intelligibile dal sensibile è estranea a s. Agostino.

6 È la tesi giusta, con un titolo forse troppo polemico di E. Gilson nell’articolo Pourquoi st Th. a critiqué st Aug., in Arch. d’hist. doctr. et litt. du m. â., 1 (1926), p. 5 sgg., cf. p. 117 sgg.

7 G. Théry, L’entrée du Ps. Denys en Occident, in Mélanges Mandonnet, Parigi 1930, t. II, p. 23 sgg.

8 Durantel I., S. Thomas et le Pseudo-Denis, Parigi 1919.

9 Comm. in Arist. Peri. VErmenei,aj, 2a ed., II: PL 64, 433; ed. Meiser, Lipsia 1877, p. 80.

10 Egidio Romano, Opus super auth. de causis Alfarabium, Venezia 1550.

11 Cf. A. Forest, La constitution métaphysique de l’être fini, Parigi 1932, pp. 331-60, raccolta delle citazioni esplicite di Avicenna; una raccolta sistematica e completa si deve a Cl. Vansteenkiste, Avicenna-Citaten bij S. Thomas, in Tijdschrift voor Philosophie, 1953, pp. 457-507.

12 Cf. W. Kleine, Die Substanzlehre Avicennas bei Th. v. A., Friburgo in Br. 1933, spec. pp. 93 sgg., 113 sgg.

13 Cf. O. Pretzl, Die frühislam. Attributenlehre, in Sitzungsb. d. Bayer. Akad. d. Wiss., Phil. hist. Klasse, 1940, fasc. 4, p. 61 nota. Anche A.-M. Goichon, La philo­sophie d’Avic. et son influence en Europe médiévale, Parigi 1944, p. 44 sgg.

14 Cf. In I Metaph., 8-9, 990 a 34; ed. M. Hayduck, Berlino 1891, p. 78, 4 sgg.

15 Simplicio, In III De Coelo, 7, 306 a 1; ed. I. L. Heiberg, Berlino 1894, p. 640, 21 sgg. V. anche: In III De Anima, 5, 430 a 23; ed. M. Hayduck, ivi 1882, p. 247, 14 sgg. Ancora: In Categor., Proemium: ed. C. Kalbfleisch, ivi 1907, p. 7, 29. A questo testo sembra alluda s. T. in Comm. in III Metaph., l. II, n. 468 e Q. De Spir. creat., a. 3, ed. Keeler, p. 41, 3. La trad. lat. «antiquior» del Moer­beke è data per finita nel marzo 1266. Cf. ibid., Praef., p. XIX col. a.

16 Le syst. du monde de Platon à Copernic, V, Parigi 1917, p. 569; tesi ripresa da L. Rougier nel saggio La scolastique et le thomisme, ivi 1925.

17 M. Grabmann, Die Aristoteleskomm. des hl. Th. v. A., in Mittelalt. Geistesleben, I, Monaco 1926, spec. p. 281 sgg.

18 J. Isaac, S. T. interpr. d’Arist., in Scholast. ratione histor.-crit. instauranda, Roma 1951, p. 360 sgg.

19 De anima intell., ed. P. Mandonnet, t. II, 2a ed., Lovanio 1911, p. 152: «Prae­cipui viri in philosophia Albertus et Thomas». V. anche: Quaest. in metaphys., ed. A. C. Graiff, Lovanio 1948, pp. 20, 25.

20 G. Wallerand, H. Bate de Malines et st Th. d’A., in Hommage à M. De Wulf, Lovanio 1934, p. 395 sgg.

21 Apud P. Mandonnet, Les écrits authentiques…, IIa ed., Friburgo in Br. 1910, p. 83.

22 A. Niphi, Collect. comm. in lib. III De An., tc. 32, Venezia 1559, coll. 339, 890.

23 Sup. lib. de Causis, lect. 1; ed. H. D. Saffrey, Friburgo-Lovainio 1954, p. 3, p. 5 e passim. Sull’attribuzione dell’opuscolo la conclusione di s. T. è stata dichia­rata definitiva dalla critica moderna: O. Bardenhewer, Die pseudo-arist. Schrift:­Ueber das reine Gute, bekannt unter dem Namen Lib. de Causis, Friburgo in Br. 1882, p. 12.

24 Cf. P. Correns, Baeumkers Beitr., I, 1, Münster in V. 1891.

25 I. Backes, Die Christologie des hl. T. v. A. u. die griech. Kirchenväter, Paderborn 1931, pp. 15 sgg., 25 sgg., 178 sgg., 203 sgg. e passim.

Si encuentras un error, por favor selecciona el texto y pulsa Shift + Enter o haz click aquí para informarnos.

Deja un comentario

Tu dirección de correo electrónico no será publicada. Los campos necesarios están marcados *

Este sitio usa Akismet para reducir el spam. Aprende cómo se procesan los datos de tus comentarios.