VIII. La dialettica qualitativa della libertà in Søren Kierkegaard

I. Introduzione: Dialettica quantitativa e dialettica qualitativa. – «Dialettica qualitativa» nell’opera kierkegaardiana è l’antitesi della dia­lettica hegeliana nel cammino che l’esistenza deve percorrere per elevar­si all’Assoluto della salvezza. In parole più semplici, essa indica l’attuarsi in elevazione all’Assoluto della libertà nel ritorno al suo fondamento e scopo o te,loj supremo come dice Kierkegaard, che in senso cristiano è il salvarsi dalla perditio saeculi mediante la remissione dei peccati e la conformità con Cristo: «scandalo per i Giudei e stoltezza per i Genti­li» (1Co 1,23).

Nel suo momento speculativo, essa si contrappone al pensiero moderno e in particolare alla dialettica hegeliana rivendicando l’opposizione-distin­zione di essere e pensiero sul piano metafisico e quella di pensare e volere sul piano esistenziale.

Nel suo momento storico-prammatico, essa contesta il cristianesimo di conformismo ossia, come si dice oggi, di aggiornamento al mondo da parte della cosiddetta «cristianità stabilita» (bestaeende Christenhed) spe­cialmente nel protestantesimo, specialmente in Danimarca. Così alla dialettica hegeliana della «ebbrezza bacchica»429,Kierkegaard oppone la coscienza del peccato ed all’imborghesimento mondano della cristianità moderna (la «cristianità stabilita»), la severa disciplina della imitazione del modello (Cristo).

Brevemente: la dialettica qualitativa vuole contrapporsi alla dialettica quantitativa della storia idealistica concepita come il Tutto, che è lo sviluppo necessario dell’Idea e pertanto come tessuto di rapporti necessari e realizzazione di istituzioni che si articolano e si saldano nell’u­nità del sistema430:quindi contro l’identità reale dinamica di essenza e di esistenza, sia sul piano dell’essere come su quello della libertà.

Nell’ambito religioso-cristiano, che è l’obiettivo principale dell’opera gigantesca di Kierkegaard, la dialettica qualitativa è la diffida di un Cristianesimo che fa leva sul fatto della massa dei cristiani e dei diciotto secoli di permanenza storica, che si appella alla consistenza storico-politica delle istituzioni e all’oggettività della dottrina: alle quali egli contrappone l’interiorità e la soggettività, cioè l’impegno del Singolo «davanti a Dio» e «davanti a Cristo», due piani e due tappe inscindibili di un unico cammino dello spirito.

La dialettica qualitativa quindi non è altro, secondo la definizione di Kierkegaard, che il cammino della libertà per «diventare cristiani» in conformità del Nuovo Testamento: così l’intesero i suoi primi seguaci ed avversari in Danimarca nella seconda metà dell’Ottocento, a differenza della Kierkegaard-Renaissance tedesca, la quale od ha «disperso» la libertà dell’esistente nel frantumarsi del tempo e della storia come fanno Jaspers e Heidegger, oppure l’ha immobilizzata nella frattura della distanza incol­mabile di Dio in cielo e dell’uomo sulla terra come intende Karl Barth431.La dialettica qualitativa di Kierkegaard ha perciò il significato di una rivendicazione della responsabilità della libertà, e perciò di una disdetta e di una denunzia del predestinazionismo antico e moderno, sia filosofico come teologico, per strappare l’uomo alla disperazione dell’amor fati, dello svanire dell’essere nel nulla e del senso nel non-senso, non meno della durezza dei decreti divini che soffocano la libertà nell’anticipazione della storia eterna in Dio di cui la storia nel tempo non diventa altro che un’inutile ed irrisoria ombra. Ma è anche merito dell’esistenzialismo di aver rivelato in Kierkegaard l’originalità della libertà del Singolo, il conflitto sempre presente e mai risolto di libertà e società.

La sintesi di libertà e verità non è più, come nel «sistema», di tipo collettivo, ma di carattere conflittuale nella durezza inesorabile dell’esisten­za; ma a sua volta, nell’esistenzialismo di tipo contemporaneo, si tratta di una durezza apparente perché manca dell’Assoluto e perciò non riconosce il rischio assoluto nell’alternativa della scelta. Basti l’esempio di Heideg­ger, che è il più pertinente e fascinoso nell’assunzione-dissoluzione del principio moderno della coscienza. Per lui infatti libertà non significa la capacità di scelta ma il «lasciar essere» (Sein-lassen), il sedersi sulla riva del tempo, il «puro» «stare a vedere» (nur das reine Zusehen: Hegel): lo stare nella fessura dell’apparire dell’essere sul fondamento del nulla dell’essente che si dilegua. Così l’apparire si media nell’essere e l’essere nell’apparire, la verità mediante la libertà e la libertà nella verità: «La libertà non è soltanto ciò che il senso comune spaccia con questo nome: la voglia che a volte sorge di piegare nella scelta da questa o quella parte, la libertà non è l’indipendenza dell’agire e del non agire. La libertà non è neppure anzitutto la disponibilità per ciò che è doveroso o necessario». Così vale allora la conversione-rovesciamento che il tenersi liberi al manifestarsi dell’essere dell’essente è la verità dell’essere: «L’essenza della verità è la libertà»432.

Qui la dialettica è al di qua della qualità, anzi è al di qua dell’opposi­zione dell’essere e del non essere. La libertà è prima di tutto questo, prima della libertà «negativa» e positiva, è l’immettersi nel non nascondersi dell’essente come tale. Il non nascondimento stesso è conservato nell’im­mettersi ex-sistente mediante l’apertura dell’aperto, cioè il «qui è (di) ciò che è»433.Una formula e una terminologia spinosa a proposito di una nozione in sé semplicissima, qual è appunto l’indicata coincidenza senza residui di realtà-verità-libertà nella Ek-sistenz che è spiegata subito dopo: «Libertà si disvela ora con il lasciar essere dell’essente»434.

Si potrebbe osservare che un siffatto «lasciar essere» è fondato da Heidegger mediante la circolarità hegeliana poiché si legge ch’esso «libera l’uomo alla sua libertà» (den Menschen zu seiner Freiheit befreit). Esso è, se così si può dire, la coincidenza scoperta e aperta – e non più velata come nel teologismo speculativo di Hegel – di essere ed apparire: purché tale coincidenza, ed in essa gli incidenti essere ed apparire, siano intesi al di fuori e prima di un nucleo metafisico costitutivo (come noumeno) e di un apparire dileguantesi (come fenomeno). Cade a questo modo come superfluo il macchinoso dinamismo della dialettica hegeliana nell’intrec­ciarsi di positivo e negativo, di finito ed infinito, ed emerge il plesso di essere-divenire e di apparire-scomparire ove il divenire non indica un passaggio «né in senso aristotelico né hegeliano» e neppure uno «status in quo» perché l’essere è il presentarsi (del presente) al quale si oppone il non presentarsi e l’assentarsi (nascondersi: sich-verbergen), come dice Hei­degger435.

È stato tuttavia merito di Hegel di aver dato al «cogito» moderno la forma dell’oggettività assoluta e di aver quindi operato la «Umkehrung» o rovesciamento della soggettività nell’oggettività ed a questo appunto tende la dialettica hegeliana: la giustificazione della storia universale. Perciò in Hegel ed in questo senso preciso – verità e oggettività e libertà coincidono nel Tutto del Concetto assoluto; la verità è l’oggettività e l’oggettività è la verità. La soggettività nella dialettica hegeliana esprime il momento più basso dello spirito: quell’immediatezza o certezza sensibile (sinnliche Gewissheit) della Fenomenologia alla quale corrisponde nella Scienza della Logica la sfera «dell’essere, puro essere, senza altra denomina­zione. Nella sua indeterminata immediatezza è solo uguale a se stesso; è la pura indeterminatezza e vuotezza»436.

Quel che sorprende è la seconda sezione del primo libro della Logica che abbraccia l’essere, e porta il titolo «Determinatezza» (Qua­lità): è la sezione che muove dallo schema formale della dialettica hegelia­na di essere, non-essere, divenire, la parte più importante ed è perciò anche la più controversa sia dai seguaci e fautori dei vari tentativi di riforma della dialettica hegeliana sia dagli avversari. Di essi in Italia è conosciuto quello di G. Gentile; ma il più attuale ed operante è fra noi og­gi quello di K. Marx il quale, com’è noto, ha capovolto la posizione hegelia­na: Il Capitale, come ha osservato giustamente Lenin, non si può comprendere senza la conoscenza dell’intera Scienza della Logica di Hegel437.

Kierkegaard in gioventù ha avuto qualche simpatia hegeliana, ma poi iniziando la sua produzione originale ha rotto radicalmente col «siste­ma», con qualsiasi sistema. Per Kierkegaard non si comincia con la soggettività e si finisce nell’oggettività, come nei sistemi specialmente postkantiani, ma si comincia con la soggettività, si opera mediante la soggettività e si finisce nella soggettività. Di qui la definizione o tesi fondamentale: «La verità è la soggettività», la sua dialettica qualitativa è la dialettica della libertà del Singolo, nel mondo, di fronte a Dio (for Gud) cioè fondata sull’Assoluto.

 

II. Il rovesciamento-dissoluzione della dialettica qualitativa in Kant-Hegel. – Proprio sulla soglia della deduzione trascendentale, Kant scopre il principio e il significato della dialettica moderna di cui egli stesso ha chiarito per primo la natura ed i compiti: così mentre nella parte seconda, sezione prima, della Critica della Ragion Pura (Analitica Trascendentale), egli espone la deduzione delle categorie ovvero dei «concetti pu­ri» dell’intelletto (libro I), e della loro dinamica nelle proposizioni fonda­mentali dell’intelletto puro (libro II), nella sezione seconda (la Dialettica Trascendentale) Kant considera l’esito di tale dinamica applicata ai pro­blemi fondamentali della metafisica riguardanti le tre Idee: il mondo, l’ani­ma e Dio. Com’è noto, l’enorme fatica di Kant si risolve in un nulla di fatto; la dialettica gira a vuoto dando luogo alle «antinomie» della ragion pura che preparano il «salto» dei postulati della Critica della ragione pratica. Kant non usa, a quanto mi risulta, il termine «salto», ma forse il suo procedere non è stato estraneo alla reazione antihegeliana di Kierke­gaard ed alla affermazione – benché su un altro piano – della dialettica qualitativa.

Al fondo del procedere kantiano sta l’identificazione cartesiana della verità come certezza (Heidegger), combinata con la concezione galileiana della scienza fisico-matematica che ha eliminato ogni riferimento alle qualità naturali e tratta i fenomeni fisici secondo le astratte coordinate matematiche di spazio e tempo.

Questo rovesciamento è presentato nel suo nucleo iniziale e teorica­mente più significativo nel § 12 della deduzione trascendentale che contie­ne, ad un tempo, sia la spiegazione della genesi della tavola delle categorie – come dice lo stesso Kant – sia l’istanza della affermazione-posizione dello Ich denke überhaupt. Kant, e non senza una profonda ragione, ha collegato la sua deduzione trascendentale alla dottri­na scolastica dei trascendentali (ens, unum, verum, bonum), com’egli l’aveva conosciuta – già profondamente oscurata – in Wolff e nella sua scuola ed è probabile che proprio tale oscuramento abbia contribuito alla nascita ed insieme all’insolubilità e fallimento della dialettica moderna. Seguiamo le tappe principali del testo kantiano438.

Kant inizia ricordando che la filosofia trascendentale degli antichi aveva un capitolo contenente concetti puri dell’intelletto che non rientra­vano nel novero delle categorie e che dovevano valere come «concetti a priori degli oggetti». Essi sono presentati per Kant nella proposizione: quodlibet ens est unum, verum, bonum.

Una presentazione men che sommaria, se la confrontiamo con l’elabo­razione classica che di questa dottrina ha fatto Tommaso d’Aquino439,ma il testo resta sempre istruttivo e fondamentale per capire la rivoluzione copernicana di Kant, che è il punto che a noi interessa, cioè il passaggio dal trascendentale classico al trascendentale moderno. Ebbene, osserva Kant, nella dottrina classica c’era una intuizione vera, quella cioè di intendere «… questi predicati trascendentali delle cose come esigenze logiche e criteri di ogni conoscenza delle cose in generale». Solo che Kant, in questa presentazione sembra considerare come trascendentali solo lo «Unum, Verum, Bonum», lasciando nell’ombra e fuori considerazione l’«Ens», che è il primo e principale contenente e portante tutti gli altri. Eliminato od obliato l’Ens, Kant può enunziare la seguente proposizione paradossale, ma assolutamente decisiva per la nuova concezione della dialettica: «Essi (trascendentali) pongono a fondamento di tale conoscen­za (delle cose di Kant) le categorie della quantità, cioè dell’Unità, Plurali­tà, e Totalità». Dopo l’oblio dell’Ens a capofila, qui abbiamo la ghermi­nella di tradurre il Verum con la «pluralità» e il Bonum con la «totali­tà»; questo si spiega però se si bada che sottomanto Kant ha sostituito l’Ens con la «quantità» astratta della fisica galileiana di cui l’unità, e la totalità sono le categorie fondamentali.

Sembra allora che Kant voglia proclamare subito la matematizzazione del reale che sarà invece fatta quasi due secoli dopo dalla più recente logica matematica, e affermare così la dialettica quantitativa. Invece egli intende introdurre, con stile perentorio, proprio la dialettica qualitativa che verifica punto per punto in ognuna delle altre categorie sostitutive dei trascendentali della metafisica classica. Si badi bene al principio informativo de­lla deduzione kantiana. Mentre gli antichi (e soprattutto S. Tommaso) inten­devano i trascendentali, appunto perché fondati sull’Ens, quali proprietà fondamentali delle cose nel loro in-sé che era garantito dall’apprensione originaria dell’Ens, esprimevano perciò aspetti reali riguardanti il «modo di essere» del reale: Kant tratta da «incauta» tale prospettiva di considerarli come «proprietà delle cose in se stesse». Ma l’errore erme­neutico è tutto dalla parte di Kant e della tradizione ch’egli rappresenta, cioè di presentare i trascendentali antichi, come «criteri del pensiero» (Kriterien des Denkens) e cioè di trasferirli nell’orizzonte della gnoseologia a priori moderna, strappandoli all’humus naturale del realismo metafisi­co440.

Ed ora Kant presenta ex abrupto (non sono riuscito a vedere chiaro il passaggio, benché sia chiaro il pretesto: il capovolgimento del trascenden­tale classico) l’introduzione della «qualità» in ciascuna delle tre categorie della quantità, ma l’introduzione viene operata, si badi bene, sfruttando le indicazioni dei trascendentali antichi. Quelle allora che per gli antichi erano le proprietà inalienabili delle cose in sé ed attribuite all’essere delle cose come enti, ora diventano proprietà della conoscenza a priori e attribuite al concetto. È il momento critico del «passaggio» ora accenna­to, in cui le altre categorie del Quantum sono indicate come «i criteri logici della possibilità della conoscenza in generale», dove il conoscere si riduce essenzialmente alla tensione di uno-molti e l’atto del conoscere alla funzione di unificare il molteplice dell’esperienza.

1. Categoria dellunità: «In ogni conoscenza di un oggetto, vi è infatti unità del concetto: essa si può chiamare unità qualitativa, in quanto con ciò viene pensata soltanto l’unità della raccolta del molteplice delle conoscenze, come per esempio l’unità del tema di un’opera teatrale, in un discorso, in una favola»… – Qui Kant apertamente equivoca nel rapporto fra realtà e unità; è vero che le opere dell’uomo – per esempio la Divina Commedia – e più e prima ancora (anche se Kant non lo nomina) la realtà della natura (una pianta, un insetto) presentano un’unità di struttura, ma questa unità ha il suo fondamento, cioè la sua realtà, nella struttura originaria della cosa stessa e poi essa emerge (più o meno) nel concetto. Questo spiega molti progressi della conoscenza nella critica e stimola la collaborazione. Ma dove l’indicazione kantiana viene meno è nel far sorgere le qualità dal molteplice che si raccoglie in unità: è una patente meta,basij eivj a’llo ge;noj. L’unità come prima determina­zione del «quantum», si applica egualmente per tutte le cose non solo per un elefante, così come per un filo d’erba (molteplice estrinseco), ma anche per le loro parti come per l’atomo, la molecola, un occhio o un pie­de…: il piede non è più uno dell’occhio, anche se è più grande. Vale qui l’osservazione di metodo che l’essere precede il pensiero e lo fonda. La mol­teplicità delle parti di una cosa, la complessità degli organi e della facoltà di un essente, non si qualificano per la unità della raccolta ma si raccolgono, cioè si presentano raccolti perché già ciascuno (l’occhio, il piede, l’atomo), ha la sua qualità naturale inconfondibile e in virtù di tale qualità si unifica nelle «qualità funzionali» delle altre parti e può confluire nelle unità di attività del tutto, per esempio dell’organismo intero441.Hegel in questo è stato, come subito diremo, molto più coerente di Kant attenendosi rigoro­samente all’unità come un tutto che Kant «postula» a livello della ragione.

2. Categoria della pluralità: «In secondo luogo, vi è verità rispetto alle conseguenze. Quanto più numerose sono le conseguenze vere di un dato concetto, tanto più numerosi sono i segni distintivi della sua realtà oggettiva. Ciò si potrebbe chiamare la pluralità qualitativa dei caratteri che spettano ad un concetto come ad un fondamento comune (e non sono pensati in essi come quantità)». La prima osservazione, in conformi­tà alla precedente, è che ogni distintivo ed ogni conseguenza sul piano del «quantum» sono del tutto eguali, ciascuno egualmente uno, ed il concet­to resta «l’uno dei molti» come esige ogni buona logica. Come fa Kant a dire: «e non sono pensati i nessi come quantità?» Come fa ad abbando­nare la quantità da cui è partito? Si può capire l’imbarazzo di Kant di fronte alla varietà che sola può dare significato ad una molteplicità reale, ma in una concezione della verità che ha il paradigma nel pensiero matematico, questa varietà appartiene alla sfera empirica, alle qualità secondarie già eliminate da Galilei e Locke. Non si può riprendere dalla finestra ciò che è stato eliminato – fatto uscire dalla porta. Nel concetto tomistico di «ens» invece si raccoglie tutta la costellazione delle qualità reali di una cosa in quanto esiste: ma Kant non l’ha afferrato.

3. Categoria della Totalità: «In terzo luogo, infine, nella conoscenza di un oggetto vi è una perfezione: essa consiste nel fatto che in un senso inverso questa pluralità nel suo insieme riconduce all’unità del concetto e si accorda pienamente con tale concetto e con nessun altro, il che si può chiamare la “compiutezza qualitativa” (totalità)». Com’è stato mistificato il riferimento del verum al molteplice unificato, così ora il «bonum», ossia la perfezione intesa come «totalità»: se si resta, come si deve restare, nell’orizzonte del «quantum», il totum è la somma di parti omogenee e l’estensione – identità kantiana – del bonum al totum non ha senso. Si dice perfetto ciò che ha raggiunto il suo sviluppo, ma le cate­gorie della quantità sono indifferenti allo sviluppo e alla perfezione di un essere, come lo erano alla diversità per la categoria della pluralità. Tutta questa deduzione della qualità non ha né può aver senso, perché è tutta dal principio alla fine un controsenso.

L’idealismo metafisico è stato il tentativo di eliminare questi contro­sensi: tentativo vano perché solidale con la piattaforma kantiana del trascendentale inteso come sintesi a priori, ma tentativo illuminante per­ché esprime apertamente e radicalmente la «quantificazione» della verità (das Wahre ist das Ganze) che ha il suo epilogo, nella dissoluzione della singolarità atomica dell’evento e nella perdita contemporanea – di con­temporaneità trascendentale – dell’infinita differenza qualitativa fra le «qualità» fondamentali della vita dello spirito, il vero e il falso, il bene e il male, e quelle della natura.

III. La «dequalificazione» dellessere in Kant. Il pensiero kan­tiano è tuttavia fortemente dialettico ma resta agli antipodi della dialettica esistenziale di Kierkegaard. La dialettica kantiana è infatti di tipo formale più che non esistenziale: l’essere per Kant non è predicato reale, ma un che di aggiunto mediante la sintesi a priori della categoria442,così che l’essere scaturisce dalla «spontaneità» dell’Io trascendentale. Kant non conosce che il Sein funzionale della copula che egli espone nella discussio­ne dell’antinomia teologica e precisamente della «impossibilità» di una dimostrazione ontologica dell’esistenza di Dio. Ovviamente una filosofia, che ammette la possibilità di una siffatta dimostrazione, è per Kant apodit­tica e non più dialettica.

Ora per il nostro assunto, quello di chiarire il passaggio dalla dialettica kantiana a quella hegeliana, possiamo prescindere dal problema specifico dell’esistenza di Dio e concentrare la riflessione sulla sua determinazione del concetto di essere-esistenza che sta a fondamento di quel problema e della sua soluzione. Orbene i momenti o «passaggi» del celebre testo kantiano sembrano i seguenti:

1. La determinazione di «esistenza» è un predicato estraneo al contenuto del soggetto, esso si aggiunge (hinzukommt) al concetto del soggetto e lo accresce. La realtà di una cosa, Kant l’ha appresa dalla filosofia nominalistica di Suárez-Wolff, è data dall’essenza stessa ossia dal contenuto dell’essenza descritta nella definizione. Questo il punto di par­tenza.

2. Ora Kant presenta il Sein, ossia ne chiarisce la natura, dall’interno delle proposizioni che riguardano Dio, la sua esistenza e i suoi attributi: un’analisi pertanto ch’è di natura puramente formale, ossia «logica» come dice lo stesso Kant, e non reale e difatti la discussione si conclude ribadendo la problematicità (antinomia) della dimostrazione dell’esistenza di Dio. Essere è quindi preso per «esistenza» nel senso dell’inesse (evnupa,rcein) della logica aristotelica.

3. Perciò Essere non è evidentemente (offenbar) un predicato reale cioè un concetto (Begriff) di un qualcosa che possa aggiungersi al concetto di una cosa. L’Essere è fuori del contenuto del concetto di una cosa e l’essenza di una cosa, come diceva Avicenna, può essere concepita in se stessa, prescindendo dall’esistenza sua di fatto. Ovviamente per Kant, come già per la scolastica nominalistica, la realtà di una cosa è data dall’essenza nella sua possibilità: nella scolastica teologicamente questa possibilità come realtà dell’essenza veniva fondata in Dio – credo di aver letto questa osservazione anche in Heidegger – il quale, creando cioè con un atto di volontà estrinseco all’essenza, faceva «passare» l’essenza all’esistenza.

4. Egregiamente, mi sembra, commenta Heidegger che il significato di «reale» per Kant non collima con il nostro di oggi secondo il quale «essere» significa senz’altro realtà in atto, mentre per Kant «reale» ha ancora un senso originario (ursprünglich). Esso significa ciò che appartiene ad una «res», ad una cosa, ad un contenuto reale (Sachgehalt) di una cosa. Un predicato, una determinazione appartenente ad una cosa è, per esempio, il predicato «pesante» rispetto ad ogni pietra, indifferentemente sia che la pietra esista realmente o non443.

5. Ed ecco il nodo cruciale: «Esso (essere) è semplicemente la posizione di una cosa o di certe determinazioni in se stesse. Nell’uso logico è unicamente la copula di un giudizio». Heidegger, pertanto – come si è detto – per dissolvere la (pseudo) onto-teo-logia di Hegel, è tornato a Kant; nella sua esemplare analisi di questa pericope kantiana, egli osserva che Kant qui non nega che l’esistenza di una pietra pesante non sia un predicato. Ma egli afferma che lo «è» non è un predicato reale, perché esso non dice nulla del «ciò» (was) ch’è la pietra come pietra o che le appartiene (per esempio, di essere pesante), ma dice il fatto che (dass) ciò che appartiene alla pietra «è». L’essere è perciò semplicemente «posi­zione» di una cosa. È la existentia degli Scolastici.

6. Ma Kant, quasi en passant, ricorda anche l’uso logico di «essere» come copula ossia della posizione della relazione fra S e P. Così sia l’essere reale sia l’essere logico sono «posizione» e posizione di pensiero, cioè atto di un giudizio. Ma la funzione di un giudizio, sia logico come reale, è di porre l’unità. Questa posizione dell’unità è per Kant, e per la filosofia dell’immanenza in generale, atto del pensiero, ossia funzione di quella che egli ha chiamato «appercezione trascendentale» o «Io penso in genera­le» nel quale è dato o pre-contenuto (è il significato fondamentale di «trascendentale») il fondamento dell’unità dei diversi concetti dei giudizi.

La conclusione importante allora è che l’«essere copulante» ri­manda all’attività originaria dell’intelletto che è l’appercezione trascenden­tale, ovvero all’unità sintetica dell’appercezione che Heidegger accosta al «lógoj» nel senso arcaico di «le,gein» (= raccogliere)444.

7. Ma, come già si è detto, Kant è dualista: c’è l’apriori e c’è l’aposteriori, c’è l’intelletto e c’è il senso e l’intelletto umano, che è privo di intuizione propria, ha un riferimento e una connessione col senso cioè con l’esperienza per la posizione di realtà. Così, ed è per noi la considera­zione conclusiva, l’essere come posizione in quanto riferito all’appercezione trascendentale, poggia su tre postulati del pensiero empirico in generale che delimitano rispettivamente la Possibilità, la Realtà, la Necessità, ossia l’intero ambito della verità. Tali postulati (esigenze a priori scaturenti dall’Io trascendentale) sono i principi con i quali si spiega l’origine e perciò il fondamento dell’esercizio dell’essere nell’attività del giudizio.

8. Leggiamo con Heidegger, sulla scia di Hegel, l’immane conclusivo sforzo di Kant per fondare la «qualità» dell’essere e sfuggire al nichilismo incombente sul pensiero moderno. Tutti e tre si richiamano in senso costitutivo a un’esperienza ed in questa triplice divisione si scorge l’abissale differenza fra la dialettica di Kant e quella di Hegel: anche se vengono accomunate da un’identica esigenza e se l’Io penso di Kant è stato il prologo dell’Idea assoluta di Hegel; si potrebbe dire che, mentre l’Io trascendentale in Kant unifica l’oggetto dispo­nendosi per piani, l’Idea hegeliana unifica il reale su di un solo piano quello della verità come un Tutto. In Kant l’Io penso opera per piani intenzionali perché l’essere non è un predicato reale e resta funzione del rapporto fra pensiero ed esperienza, il quale è esperienza – come è riferito da Heidegger nel suo noto saggio su Kant445 – nei tre postulati esprimenti appunto le tre presunte qualità che sono: possibilità, realtà e necessità.

9. Nella tavola delle categorie esse figurano in quarta posizione cioè sotto la «modalità». Ora la formulazione dei postulati:

a) Il primo postulato suona: «Ciò che si accorda con le condizioni formali dell’esperienza (secondo l’intuizione ed i concetti) è possibile (möglich)».

b) Il secondo: «Ciò che è connesso con le condizioni materiali dell’esperienza (della sensazione) è reale (wirklich)».

c) Il terzo: «Ciò la cui connessione del reale è determinata secondo le condizioni universali dell’esperienza è (esiste) necessariamente (not­wendig)». Ora nell’ambito del dualismo kantiano, e all’opposto della metafisica classica, le tre categorie della modalità (possibilità, realtà, neces­sità) non portano – come avverte Heidegger – sul «ciò» che è e rimane in sé noumeno ma soltanto sul «come», ossia esprimono la relazio­ne alla facoltà conoscitiva, cioè dice «soltanto come si comporta l’oggetto (assieme a tutte le sue determinazioni) rispetto all’intelletto e all’uso empi­rico di questo»446.

 

10. Pertanto, il muro invalicabile della dialettica kantiana è l’eteroge­neità fondamentale, e quindi l’incommensurabilità costitutiva, per il nostro intelletto che è un «intellectus ectypus», non per l’intellectus archetypus di Dio, fra senso e intelletto, fra esperienza e riflessione. Così le tre forme, ossia «determinazioni» (Bestimmungen) o qualità dei giudizi di possibilità, realtà e necessità sono esigenze pure dell’intelletto, perciò qualità solo nel senso di determinazioni da parte dell’intelletto e non delle cose447.

Potrà sembrare strano e paradossale, ma è mia convinzione che la problematica della dialettica moderna raggiunge il suo acme proprio al suo sorgere con Kant, con la tensione irrisolubile di fenomeno e noumeno, di spazio e tempo, d’intuizione sensibile e categorie, di dati empirici e di principi trascendentali, d’intuizione e riflessione, di esperienza e pensiero, di Verstand e Vernunft, di categorie e idee trascendentali, di Ragion pura e Ragion pratica… Gli apporti decisivi della sostanza una di Spinoza, del­l’esperienza dell’Uno-Tutto di G. Bruno, J. Böhme, del sentimento dell’unità divino-cosmica di Hölderlin… sono stati decisivi per operare il «salto qualitativo»448 al sistema da parte di Hegel. Si potrebbe dire che, mentre in Kant, la metafisica è rimasta nell’atrio in attesa della sentenza da parte della Critica della Ragion pura, una sentenza che non è formata né di pura negazione, né di pura affermazione ed in questo abbiamo la conferma della dialettica reale costitutiva del kantismo: l’idealismo ed Hegel in particola­re hanno realizzato l’unità-identità di essere e pensiero, eliminando ogni residuo dualistico nelle coppie ora indicate grazie alla triplice identificazio­ne dialettica sul fondamento (Grund) dell’identità di essere e pensiero, di particolare e universale (finito e infinito, parte e Tutto) e di conoscere e volere. Così, mentre in Kant rimaneva una parvenza di «dialettica quali­tativa», nell’idealismo hegeliano il Tutto diventava la forma e il contenu­to ad un tempo del processo universale della storia. Così mentre in Kant spazio e tempo si dividono il campo percettivo dell’esterno e dell’interno, in Hegel l’esterno diventa l’interno (e viceversa) e il tempo assume e ingloba l’essere e l’Idea assoluta nel suo «sviluppo» (Entwicklung) ab­braccia tutti i momenti dell’essere. Ciò che in Kant era latente, qui di­venta patente.

a) L’eliminazione di ogni verità circa la trascendenza reale, cioè metafisi­ca e teologica, a favore dell’Idea trascendentale che contiene tutto il vero (das Wahre ist das Ganze);

b) l’eliminazione del problema del male, come processo reale di libertà, a favore del processo eterno della storia che ha in sé, immanente al suo divenire, la sua giustificazione (Weltgeschichte als Weltgericht)449.Scom­paiono perciò i presupposti di ogni dialettica qualitativa autentica del pensiero esistenziale, cioè le tensioni di creatura e Creatore, di uomo e società, di tempo ed eternità, di finito ed Infinito, e soprattutto quelle più autenticamente qualitative di vero e falso, di bene e male.

È in questa prospettiva etico-religiosa che Kierkegaard ha opposto ad Hegel e all’hegelismo la sua dialettica qualitativa.

IV. La «dequalificazione» dellessere nella dialettica hegeliana. – Prima di esporre il modo spiccato e radicale col quale Hegel ha portato a termine il processo iniziato da Kant, cioè di diluire ovvero assorbire la qualità nella quantità, penso gioverà toccare il modo col quale lo stesso Hegel elimina la «differenza qualitativa» fra il finito e l’Infinito, fra la creatura e il Creatore, fra tempo ed eternità e quindi fra vero e falso, bene e male450.

Diversamente da Kant che concepiva spazio e tempo in tandem per la conoscenza della natura, Hegel riserva lo spazio alla natura e il tempo alla storia e così il tempo diventa la «vis insita» dello spirito umano nel suo evolversi storico. L’uomo e il tempo, afferma con espressione potente Hegel, nascono insieme: «Essa (la filosofia) è così l’uomo in generale e come è il punto dell’uomo è il punto del mondo. E come è il mondo, è l’uomo, un colpo li crea entrambi. Cos’è stato prima di questo tempo? L’altro del tempo non è un altro tempo, ma l’eternità, il pensiero del tempo. Con questo è tolta la questione; infatti questo non significa un altro tempo; ma così l’eternità stessa è nel tempo; essa è un prima del tempo, quindi anche un passato; esso è stato, assolutamente stato, essa non è. Il tempo è il concetto puro, il sé intuito vuoto nel suo movimento, come lo spazio nel suo riposo»451. Ed è tale tempo, conclude Hegel, che muovendosi, diventa la Storia Universale di cui il «genere» è attore e sostanza; ma il singolo, l’individuo, è parvenza inessenziale che il turbine della storia travolge e distrugge.

A questo modo – ed è la tesi antropologica fondamentale di Hegel che Kierkegaard ha soprattutto preso di mira – «il genere è l’unità semplice che è in sé con la singolarità del soggetto di cui esso è la sostanza concreta», perché l’universalità sostanziale è il genere452.È tale universalità che media l’individuo il quale, a cagione della sua immediatez­za, si comporta negativamente rispetto alla sua universalità. Parole astruse ma dal significato decisivo: il genere domina l’individuo e l’indivi­duo è al punto infimo della scala ontologica del tempo e dello spazio, nasce per caso ed è condannato a scomparire con la morte.

Così il gioco dell’annullamento della qualità e della differenza diventa in Hegel assai più spiccio e radicale che non in Kant. Mentre in Kant l’essere resta fuori della sfera intenzionale (Sein ist offenbar kein reales Prädikat), per Hegel è col Sein «vuoto» che la filosofia fa il suo «comin­ciamento» (Anfang): come una parola vuota (leeres Wort), questa parola semplice che non ha altrimenti nessun altro significato e che perciò costitui­sce il primo passo della mente ossia l’immediato (das Unmittelbare)453. Nel­la riflessione, mediante il metodo dialettico dell’affermazione e negazione, il pensiero provvede alle ulteriori determinazioni di questa «vuotezza» (Leerheit) fino al suo «riempimento» (Erfüllung) dell’Idea assoluta. Non a caso Hegel dà alla prima sezione della Logica, dedicata alla dialettica dell’essere, il titolo: Determinatezza (qualità). I momenti di siffatta dialet­tica dell’essere sono rigorosamente tre ed a noi interessano i primi due. Il primo è l’essere determinato in generale verso (gegen) l’altro ed è per questo che la sezione ha per titolo: «Determinatezza» (Bestimmtheit) (Qualità).

Ma come dal vuoto si passa al pieno e dall’indeterminato al determina­to? È il nodo della dialettica hegeliana, oggetto di accesa controversia fra i suoi avversari e gli stessi suoi fautori, che non sembra sia stato ancora sciol­to. Qui, per il nostro assunto, ci atteniamo alla trama formale con le parole stesse di Hegel; il nostro compito è di vedere se e come dal vuoto di qualità, ossia dall’indeterminato, egli arriva alla determinazione ch’è ap­punto la qualità e se la sua dialettica sia perciò qualitativa.

L’essere (das Sein) è indicato con formule varie di senso convergente: «l’immediato indeterminato» (das unbestimmte Unmittelbare), «l’esse­re senza riflessione» (reflexionsloses Sein), «l’essere senza qualità» (qua­litätsloses Sein), «pura indeterminatezza e vuotezza» (reine Unbestimmheit und leere), «perfetta vuotezza, mancanza di determinazione e di contenuto» (volkommene Lehrheit, Bestimmungs- und Inhaltslosigeit)454.

Da una siffatta presentazione Hegel non ha difficoltà a concludere che l’essere è uguale al nulla e questo per una corrispondenza formale e rigorosa: come l’essere nella sua indeterminatezza è soltanto uguale a se stesso, anche il nulla è semplice uguaglianza con se stesso ed è perciò (somit) la medesima determinazione o piuttosto mancanza di determinazione. Già nella piccola Enciclopedia del 1808 (secondo Rosenkranz), il Sein è presentato come «concetto senza determinazione» (bestimmung­loses Sein) il quale nella sua «mancanza di contenuto» (Inhaltslosig­eit) e «vuotezza» (Leerheit) e «purezza» (Reinheit) è identico al nulla. E qui si vede chiaro il virtuosismo verbale di Hegel: «Non c’è quindi, conclude, nessuna distinzione del medesimo, ma con questo c’è il porre di loro come distinti e il dileguarsi di ognuno nel suo contrario, ossia è il puro divenire»455.Nelle lezioni di Jena (1803/1804), l’essere iniziale infatti è identificato all’etere secondo la concezione della fisica romantica che ha dominato fino alla teoria della relatività di Einstein e che si riscontra ancora nello schema della struttura dell’atomo di Niels Bohr. La prima sezione tratta della «Meccanica» e comincia ex abrupto: «L’idea come l’esistenza che ha fatto ritorno nel suo concetto può ora essere chiamata materia assoluta ossia letere. L’etere quindi non penetra tutto, ma esso è anche tutto; infatti esso è lessere». E la spiegazione che segue mi sembra una sintomatica indicazione, in un linguaggio più diretto rispetto a quello riflesso della grande Logica del 1812. Hegel infatti spiega: «L’essere non ha nulla fuori di sé e non si cambia; infatti esso è il dissolvere di tutto, la pura semplicità negativa, la liquida e limpida trasparenza (die flüssige und untrübbare Durchsichtigkeit456.E la spie­gazione formale di tale trasparenza si può riscontrare nella Logica, dove Hegel spiega l’indeterminatezza dell’essere, del puro essere (Sein, reines Sein) poiché… «in essa non c’è nulla da intuire, se si può qui parlare d’intuire; oppure (oder) esso è solo questo vuoto, puro intuire stesso» – cioè all’essere vuoto, puro, corrisponde l’intuire vuoto, puro. Essere e nulla sono quindi formalmente identici, ma non realmente dice Hegel, il quale di lì a poco precisa: «Ma queste espressioni hanno un sostrato nel quale avviene il passaggio (dall’essere al nulla). Essere e nulla sono nel tempo tenuti separati l’uno dall’altro, rappresentati in esso alternanti, ma non pensati nella loro astrazione e pertanto non così che essi in sé e per sé siano la medesima cosa». Quindi ora essi si trovano distinti e la distinzione non sembra scaturire dalla considerazione logica dell’essere e del nulla, ma dalla considerazione fenomenologica di come l’essere e il nulla si «alternano» nel tempo. Ecco pertanto ancora il primato del tempo: in Kant esso aveva il primato in quanto è il tempo che rende possibili gli schemi trascendentali, mediante i quali le categorie dell’intelletto (sostanza e causa, possibilità-realtà-necessità) si possono accordare (übereinstimmen) con i fenomeni (Erscheinungen) della sensibilità: Kant chiama lo schema temporale (permanenza, successione, ecc.) un «monogramma dell’immagi­nazione pura a priori»457. Quindi, mentre in Kant il problema della qualità era rimasto in sospeso al seguito della cosa in sé alla quale rimanda, in Hegel tale problema è superato cioè negato fin dall’inizio in quanto questo è fatto con «l’essere vuoto» parificato al non-essere, così che la dialettica non è nello sviluppo delle cose ma nell’opposizione dei pensieri. E se non bastasse il già detto, questo lo si può vedere nell’impo­stazione che Hegel dà alla Logica fin dal 1808458, ove si legge che la Lo­gica è la scienza che opera mediante il puro intelletto (Verstand) e la pura ragione (Vernunft). Ed ecco che partendo da due facoltà, Hegel trova tre lati (Seiten), cioè campi di riflessione logica:

1) Il lato astratto o intellettuale (die abstrakte verständige).

2) Il lato dialettico o razionale negativo (die dialektische oder negativ vernünftige);

3) Il lato speculativo ovvero razionale positivo (die spekulative oder positiv vernünftige).

Un procedere che è doppiamente sospetto: 1) l’ammissione in apertu­ra, anzi a fondamento, della riflessione logica dei prodotti (i concetti astratti) dell’intelletto in cui Hegel aveva visto la carenza principale della filosofia precedente e, come si è visto, nello stesso Kant. 2) Lo «sdop­piamento» del razionale in due lati o momenti, l’uno è il primo negativo e il secondo è detto invece positivo. Ma qui ci si può domandare: come mai il negativo razionale precede e perciò fonda il positivo razionale? Su cosa porta allora la negazione del primo momento della ragione? Sui dati dell’intuizione sensibile? Ma essi sono quelli che sono. Sui prodotti dell’intelletto? Ma tocca all’intelletto, caso mai, negare in propria materia ed alla ragione nella sua, e così il negativo razionale deve seguire e non precedere il positivo razionale. Quindi il negativo dialettico, che è il momento cruciale del metodo hegeliano, è un momento spurio senza padre, un apolide, nulla. Hegel cerca di spiegare: «Il dialettico si mostra nel loro (dei concetti) trapassare e nel loro dissolversi»459.Ma tali concetti, in quanto sorgono e sono presi dall’intelletto, restano a significa­re quel contenuto rigido e unilaterale che devono significare; perciò non possono né trapassare né dissolversi: se così fosse, non sono più i dati e i concetti coi quali si è fatto il cominciamento (Anfang).

V. La critica di Kierkegaard all’«essere vuoto» di Hegel. – La conclusione della precedente diagnosi è che ogni pretesa dialettica a partire dal cogito come pensare «senza presupposti» (voraussetzungslos), ossia che inizia «senza determinazione e senza contenuto alcuno», dissolve lo stesso pensare e l’uccide sul suo nascere. Un pensiero puro senza riferimento alla realtà è solo quello matematico, per questo si fonda su assiomi (convenzionali) e può procedere in perfetta autonomia e immanenza; nel pensiero del reale la qualità deve essere invece un prius rispetto al pensiero e non un posterius. L’ambito del pensiero è la sfera dell’essenza che ap­partiene all’astrazione, nella realtà dell’esistere si hanno solo individui singo­li, e riguarda perciò la possibilità cioè l’oggettività formale: ma Hegel, per via di quel cominciamento senza presupposti che non può cominciare – co­me si è visto – non può stabilire neanche una sfera di possibilità ch’egli del resto deve respingere perché il sistema identifica dialetticamente possibilità e realtà, parimenti (e di conseguenza) libertà e necessità, essenza ed esisten­za, soggettività ed oggettività – e tutto questo mediante una dialettica che non può fare un passo ma che muore, e deve morire nel suo stesso nascere. Di qui la critica di Kierkegaard al cogito moderno come puro Anfang460.La sua osservazione teoreticamente pertinente sembra la se­guente: per Hegel bisogna cominciare con l’immediato il quale insieme esige la massima riflessione, «ha la proprietà notevole di essere infinita, ma poi ciò implica che la stessa riflessione non può essere fermata da se stessa». È vero che lo stesso Hegel chiama questa infinità della riflessio­ne la «cattiva infinità» (schlechte Unendlichkeit), qualcosa di spregevole a cui bisogna rinunciare al più presto. E perché mai? si chiede Kierke­gaard. Ma se con essa si è fatto lo Anfang, perché poi è considerata qualcosa di spregevole da buttare via? La realtà, ossia la carenza di fondo della dialettica hegeliana, è che il «sistema» non comincia immediata­mente cioè con l’immediato reale, ma è ottenuto anchesso con la riflessio­ne – per la ragione appunto che la riflessione non può arrestare se stessa. E se qualcuno, Hegel o qualche hegeliano, dicesse: si comincia con l’intuizione (Anschauung), allora Hegel o ricade in Schelling cui egli ha grossolanamente irriso nella Vorrede alla Fenomenologia461,oppure l’e­quivoco ora iniziato continua. Hegel infatti – e l’abbiamo già letto – scrive imperterrito: «Non c’è nulla in essa (= nella pura indeterminatez­za e vuotezza dell’Anfang) da intuire, se qui si può parlare di intuire; ossia qui c’è soltanto il puro, vuoto intuire»462.Il puro e vuoto intuire non è che l’intuire del vuoto che è intuire a vuoto e quindi un non intuire né pensare affatto, è il vuoto cioè un gabbare il prossimo.

E qui Kierkegaard incalza con un’osservazione che s’innesta nella linea della nostra disamina, ossia denunziando che di fronte all’impossibilità di avanzare da parte di siffatto pensiero puro – che in realtà pensiero non è – Hegel stesso l’abbandona e si appella, per superare ciò che resta fuori del pensiero puro, fa cioè ancora una meta,basij eivj a’llo ge,noj.

Ossia Hegel lascia la sfera del pensiero e cade in quella dell’immagi­nazione, nel senso ch’egli abbandona il concetto e chiama in soccorso la rap­presentazione del tempo: «Quando nel pensiero puro si parla di un’unità immediata di riflessione in sé e di riflessione in altro e si dice che quest’unità immediata viene tolta, bisogna allora introdurre qualcosa fra i momenti dell’unità immediata. Cosa? il tempo. Ma per il tempo non c’è alcun posto dentro il pensiero puro. Che significato hanno allora “supera­mento” e “passaggio” e “nuova unità”?»463.Ripetiamo che il tempo come lo spazio – a partire da Kant e già fin da Descartes, Galilei, Locke – costituiscono la sfera dello indifferens o del qualitätsloses; una formu­la che deve sottendere il nuovo cammino del pensiero nella sua autonomia. Si può dire allora – ed è la negazione radicale della differenza reale e pertanto della dialettica qualitativa da parte del pensiero moderno – che il ricorso alla forma di tempo e spazio, in sé qualitativamente indifferen­ti, non toglie ma consolida l’indifferenza. La contemporaneità e la successione, quando diventano il principium fundans, tolgono ogni fonda­mento: possono, e lo sono spesso purtroppo, essere contemporanei e successivi ossia immersi nel movimento grazie allo spazio e al tempo: eventi di qualità (sia fisiche come morali) radicalmente diversi rispetto al vero ed al falso, al bene ed al male che lo scorrere del tempo pareggia come la falce con le erbe del prato.

VI. La critica di Kierkegaard alla dialettica quantitativa hegeliana. – Perciò Kierkegaard – e non a caso Heidegger ha evitato il contatto col danese, in campo speculativo464 – afferma che la posizione hegeliana manca di etica, anzi essa distrugge loriginalità delletica e nega la specifici­tà della religione e soprattutto del Cristianesimo465.Sono i due punti focali della dialettica qualitativa dell’esistenzialismo kierkegaardiano. Per Kierkegaard essi sono – sul piano esistenziale dell’evento della libertà – profondamente connessi e necessariamente dipendenti l’uno dall’altro. È in questo che consiste il significato profondo della soggettività ossia della li­bertà che è il fondamento della «dialettica qualitativa». Una volta infatti che il tempo indifferente è chiamato a sostanziare l’essere, la storia umana diventa la successione di eventi indifferenti della storia universale, riferiti cioè o ai despoti di un tempo che trascinavano la masse oppure alle masse di oggi – e già al tempo di Kierkegaard – che sopraffanno e soverchiano la qualità con la quantità. Kierkegaard lo contesta per la ragione che l’etica e il momento etico costituiscono il carattere inderogabile di ogni esistenza individuale, un’esigenza così inderogabile che qualunque cosa un uomo possa dispiegare nel mondo, anche la più sbalorditiva, diventa la più sospetta se egli non ha chiarito la propria posizione nella sfera etica quando ha fatto la scelta, chiarendo la propria responsabilità dal punto di vista dell’etica. Il «passaggio», proposto dalla dialettica hegeliana, è pertanto immorale: perciò l’etica tiene d’occhio con lo sguardo diffidente la storia universale, poiché questa diventa facilmente una trappola, una dissipazione estetica demoralizzante per il soggetto conoscente, in quanto la distinzione fra ciò che ha o non ha significato storico mondiale è posta sul piano della dialettica quantitativa (cioè dei vari Geister: Volksgeist, Zeitgeist, Weltgeist) per cui anche la distinzione etica assoluta fra il bene e il male è neutralizzata in modo estetico-storico-mondiale nella determina­zione estetico-metafisica del «grandioso, dell’importante», a cui tanto il male quanto il bene hanno «uguale accesso»466. Perciò l’uomo etico deve stare in guardia contro il principio del «numero», ossia che la maggio­ranza come tale faccia la verità, e contro il principio del «risultato» ossia che il successo sia la conferma e la garanzia della verità. Quindi l’uomo etico non si preoccuperà di diventare importante nella storia: «Questa è una stupidità, perché Dio non ha bisogno di nessun uomo. Sarebbe del resto una cosa estremamente seccante di essere creatore, quando ciò avesse il risultato che Dio ha bisogno della creatura» (loc. cit.).

Il significato teoretico di questo discorso è pari a quello pratico. Senza trascendenza metafisica non c’è etica; l’opposizione inconciliabile di essere e non-essere e con essa il principio di contraddizione467 restano a fonda­mento della verità oggettiva di cui l’opposizione inconciliabile di bene e male, con l’imperativo categorico dell’aspirazione assoluta al Bene infinito, è la risposta pratica. La libertà dell’uomo è solidale all’onnipotenza divi­na: senza la dipendenza totale della creatura dal Creatore, non c’e libertà e libertà di scelta e chi non sceglie anzitutto Dio, non è in grado di attuare la libertà di scelta ma si perde in un puro sperimentare – cioè nella casualità, nella «cattiva infinità» la quale – come si è visto – sprofon­da nel nulla che nella vita dello spirito è la pazzia, l’assenza di fondamen­to: «Don Chisciotte annota Kierkegaard, è il prototipo della follia soggettiva, in cui la passione dell’interiorità abbraccia una particolare idea fissa finita»468. Colui che non vede questo, osserva Kierkegaard, è un cretino e chi osa contraddirmi io mi propongo di renderlo ridicolo in virtù della vis comica che possiedo in questo momento. Il punto qui da ritenere è che la storia universale nel suo autentico contenuto, esito e valore, è accessibile soltanto a Dio che ne farà il giudizio finale. Non è vero quindi, anzi è una professione di ateismo, l’affermazione già citata di Hegel che «la storia del mondo è il giudizio del mondo»469. Per Dio, osserva, forse è questa la situazione, poiché Egli possiede nella sua conoscenza eterna il medio, che è la commensurabilità dell’esterno e dell’interno; ma lo spirito umano non può vedere la storia umana a questo modo: «Per Dio infatti la concezione della storia universale è penetrata dalla conoscenza che egli ha, nelle cose più grandi come nelle cose più piccole, del segreto più intimo della coscienza dell’uomo. Se un uomo vuole assumere questo punto di vista, è uno sciocco»470. Perché è un incosciente, una vittima della dialettica quantitativa.

Come l’etica ha il fondamento assoluto in Dio e si attua nel rapporto assoluto all’Assoluto, così essa ha per soggetto il Singolo che è l’io individuale come persona incomunicabile e libera davanti a Dio: «Se non si tien fermo questo, si sbocca ben presto con la speculazione nel fantastico Io = Io, che è stato certamente usato dalla filosofia moderna ma senza spiegare come il singolo individuo si rapporti ad esso: e, mio Dio, nessun uomo può essere più che un individuo singolo»471. Il nesso teoretico è che quel Io = Io è vuoto, come l’essere = non-essere: infatti l’Io = Io è un punto matematico che non esiste e che, come tale, non potrà mai essere ossia trovarsi nell’unità di finito e infinito, cioè che trascende l’esistere… e perché né l’uno né l’altro (Io = Io) è reale, è un incontro fantastico nelle nuvole, un amplesso sterile e la relazione di questo io singolo a questo vuoto miraggio non è mai indicata. La conclusione è che la dialettica dell’idealismo, la «mediazione» che pretende ridurre i molti all’Uno e al Tutto, è una illusione e lo dimostra, come si è visto, il suo abbandono del principio di contraddizione per il principio di identità472. La filosofia dell’immanenza ha ottenuto il risultato opposto a quello che si era proposto; invece di attuare e fondare l’interiorità nella libertà e la libertà nella verità, essa ponendo l’identità di essere e pensare, di pensare e volere, ha tolto la realtà ed il senso del loro rapporto.

VII. Il recupero kierkegaardiano della dialettica qualitativa. – Co­me ricuperare allora questo rapporto? In questo ricupero consiste la fonda­zione della dialettica qualitativa che ha il suo orientamento di fondo nel realismo a tre dimensioni: metafisico, etico, religioso. Per Kierkegaard non c’è passaggio di continuità fra ciascuno di queste dimensioni o stadi, ma uno «stacco» che comporta il «salto» di cui si è già detto, cioè la «scelta della libertà» come rischio esistenziale. È nel pertugio di questa finestra del­la libertà (che si apre e chiude all’esterno dall’interno), è in questa fessura che si colma soltanto per un complementum animae con l’intensità dell’at­to di scelta, che si pone e impone lo specifico della dialettica qualitativa e quindi si attua la mediazione qualitativa. Questa mediazione, ch’è l’atto di libertà di ogni Singolo esistente, ha per suo presupposto il «movimento» dell’interiorità ossia della riflessione soggettiva.

Ora Kierkegaard procede per tappe serrate. Lo stadio metafisico di posizione dell’Assoluto, se non si concreta nella decisione etica assoluta, si dissolve e cade nell’estetica ove l’esistenza si disperde appunto nella cattiva infinità. A sua volta lo stadio etico, se non si fonda nell’Assoluto reale della religione storica, rimane prigioniero dell’esigenza formale senza fondamento: il «tu devi» che non si fonda in Dio deve fondarsi nell’uomo, ma così resta senza fondamento e, se l’uomo cerca il fondamento, egli non lo può dare. È stato questo l’errore del formalismo morale di Kant, pari all’espediente dei «colpi che Sancio Panza si dà sulla schiena. (…) La trasformazione dell’immediatezza – il «salto qualitativo» – [, questo morire,]vi non è fatta sul serio, diventa un’illusione e un puro sperimentare se non c’è di mezzo un terzo, qualcosa che costringa senza essere l’individuo stesso»473.

È la trascendenza dell’Assoluto metafisico l’unico fondamento al tra­scendere esistenziale del «salto qualitativo» della scelta etica dell’Assolu­to e dell’Eterno da parte del singolo. Qual è allora lo «specifico» della dialettica qualitativa?474 Esso consiste nel «paradosso» che corrisponde al­la determinazione di Dio nel tempo, che è l’Uomo-Dio apparso nella storia come Uomo Singolo: Kierkegaard perciò parla della «dialettica qualitativa del paradosso assoluto». Essa comporta un rapporto di tempo ed eternità sia in Dio che entra nel tempo con l’Incarnazione, sia nell’uomo che median­te la decisione della fede di aderire all’Uomo-Dio entra con la speranza del­l’eternità. Questo suppone per Kierkegaard che Cristo sia veramente Dio e Uomo nel senso delle definizioni conciliari di Nicea e Calcedonia475, ossia che la sintesi di Uomo-Dio, di tempo ed eternità in Cristo sia reale e non puramente dialettica. E ciò pre-suppone l’infinita differenza qualitativa fra l’uomo e Dio sia come creatura e Creatore, sia (e soprattutto) come l’uomo peccatore e il Santo per essenza: qui Kierkegaard osserva che bisogna mantenere la «dialettica dell’incomprensibilità».

Possiamo allora dire che la dialettica qualitativa è propria del Cristia­nesimo e indica il «come» si fa a diventare cristiani: essa è la dialettica religiosa alla seconda potenza e perciò il Cristianesimo nella Postilla è detto religione B. La religione A è quella naturale, che ha per Kierkegaard il suo rappresentante in Socrate il quale vive nell’aspirazione all’eterni­tà-immortalità e muore per essa. Infatti l’etica, come tale, si attua al­l’interno dell’autoaffermazione, la religiosità di Socrate si attua come soffe­renza dell’autoannientamento però all’interno dell’immanenza. Socrate in­fatti vive e muore nell’ascolto del demone che ha in sé: nella religiosità A non c’è nessun punto di partenza storico.

La religiosità B del paradosso ch’è il Cristianesimo invece rompe con l’immanenza e fa dell’esistere una contraddizione assoluta, non all’interno dell’immanenza, ma contro l’immanenza: la contraddizione di cui si parla ovviamente non è di carattere logico, ma esistenziale. Essa da parte di Dio significa che l’eternità «entra» (bliver til) nel tempo, che Dio diventa uomo rimanendo sempre l’eternità in sé eternata e il tempo in sé tempora­le, parimenti Dio conserva l’essere proprio di Dio e l’uomo quello di uomo. La speculazione invece ossia lo gnosticismo nell’antichità e la speculazione moderna hanno trasformato il Cristianesimo in una storia eterna, in una dottrina metafisica dove Dio diventa uomo e l’umanità diventa Dio: invece la dialettica qualitativa propria della religiosità B ossia del Cristia­nesimo afferma che Colui che secondo la sua natura è eterno, è lo stesso che è diventato nel tempo: è nato, è cresciuto, ha patito, è morto (e poi risorto). Questo significa che il Dio Creatore è diventato realmente il nostro Salvatore e che la religiosità del paradosso costituisce la sfera della fede. La determinazione di qualità nella dialettica della fede nell’Uomo-Dio è l’essere-Dio: è questo che fonda il paradosso assoluto dell’Incar­nazione. Perciò, se si vuole parlare di Dio (in Cristo), si deve dire: Dio. L’altro lato ancora più profondo del paradosso è che Cristo, l’Uomo-Dio, è venuto al mondo per soffrire476 e che questo è il suo te,loj ciò che non si può dire di nessun altro uomo. La cosidetta teologia chenotica contempo­ranea, togliendo la tensione del Dio-uomo in Cristo elimina tale paradosso assoluto e con esso la dialettica della fede la quale è «la particolare realtà storico paradossale»: esso forma il cosiddetto «problema di Lessing» di cui trattano i capitoli IV e V delle Briciole di filosofia.

Lessing, insiste Kierkegaard, aveva avanzato il dubbio che «non si può fondare una salvezza eterna su di un fatto storico». Dunque qui esiste un fatto storico, il racconto della vita di Gesù Cristo, l’Uomo-Dio. A questo dubbio Kierkegaard risponde affermativamente, ma questa ri­sposta vale solo rispetto a Cristo, alla vita di Cristo; Lessing, risponde negativamente perché, d’accordo col deismo, con Reimarusvii, non ammette in partenza in Cristo la realtà dell’Uomo-Dio, cioè la divinità di Cristo perché respinge la Fede. La fede cristiana si fonda quindi su di un concreto e singolare fatto storico, l’Incarnazione, ossia sulla vita di Gesù Cristo contenuta nel Nuovo Testamento. Ma questo fatto è anche storica­mente certo? Kierkegaard risponde che il momento decisivo non è la certezza che è frutto della scienza storica dell’evento in questione: anche se fosse la cosa più certa di tutta la storia, non è questo ciò che conta; non si può direttamente fare un passaggio da un fatto, in quanto è semplicemente storico, per fondare su di esso una salvezza eterna. La sal­vezza viene da Gesù Cristo, uomo storico, però in quanto Egli mostra che è insieme Dio. Ciò è qualcosa di qualitativamente nuovo. E allora come? Con il «salto» della fede: «Dico allora a me stesso: io scelgo. Questo fat­to storico impegna tutta la mia vita. Il credente impegna per esso tutta la sua vita. Questa è la tensione infinita della dialettica qualitativa, ch’è dialettica di libertà. Questo si chiama rischiare e senza il rischio la Fede è impossibile»477. Rapportarsi allo spirito – spiega Kierkegaard – è essere sotto esame. Credere, voler credere è fare della propria vita un continuo esame; l’esame quotidiano è la tensione della Fede che si accompagna alla passione del credere: «La Fede non deve accontentarsi dell’incomprensibilità, perché precisamente il rapporto ovvero la respinta che essa subisce da parte dell’incomprensibilità dell’assurdo (paradosso), è l’espressione della passione [infinita] della fede. Per questo il momento pa­tetico è solidale con quello dialettico. Profondamente perciò Kierkegaard ri­ferisce questa tensione alla struttura dell’uomo che è una sintesi di anima e corpo nello spirito (Aand) che si riflette in particolare nella tensione della fede, ossia del diventare cristiani. Quanto al diventare cristiani che è la dialettica qualitativa kat’evxoch,n, riprende Kierkegaard, si deve però ri­cordare una differenza che c’è qui rispetto alla dialettica di Socrate478. In­fatti rispetto all’immortalità, l’uomo si rapporta a se stesso e all’idea: non più in là. Ma dal momento che un uomo sceglie di credere in Cristo, cioè sceglie di impegnare la sua vita per questo, subito può rivolgersi nella pre­ghiera direttamente a Cristo. Così – si badi bene che è il punto cruciale della dialettica qualitativa – la realtà storica è l’occasione e nello stesso tempo l’oggetto della fede. Resta quindi la conclusione che è anche la for­mula conclusiva della dialettica qualitativa la quale esprime insieme nella sfera esistenziale l’essenza del Cristianesimo: «Una beatitudine e una felici­tà eterna si decide nel tempo per via di un rapporto a qualcosa di stori­co»479. Così il problema è sottratto alla speculazione e proposto alla libertà: la speculazione vuole trasferirlo nell’eternità, mentre la fede lo rimanda al tempo ed esige che ogni credente lo risolva nel tempo, cioè vita natural durante. L’eternità (la salvezza eterna) si decide nel tempo e tocca perciò al tempo (alla decisione presa nel tempo) decidere dell’eterni­tà.

Il riferimento all’evento storico obiettivo, e pertanto alla sintesi obiet­tiva dell’Uomo-Dio e di tempo-eternità, tronca la seconda scappatoia di Lessing nella sfera soggettiva, ossia di «scegliere la sinistra» vale a dire di preferire alla certezza della verità, l’aspirazione incessante: «Ma Les­sing aveva torto in quanto ciò è un po’ troppo erotico, perché c’è il pericolo che il prezzo possa interessare più della persona amata e perciò anche più della verità, ma questo è impossibile nei riguardi della Fe­de»480. Nella fede la persona storica che pone l’esigenza e chiede l’assenso è Dio stesso in Cristo come l’Uomo-Dio.

VIII. La fondazione cristiana della «dialettica qualitativa» (Libro di Adler). – L’incontro con Lessing nelle Briciole e nella Postilla aveva provocato la nozione di «differenza qualitativa» con l’affermazione del­l’originalità e trascendenza dell’esistenza cristiana: il «caso Adler» dibat­tuto e concluso nella primavera del 1845, provocò con il Bog om Adler (1846-47), lasciato inedito tra le carte481, l’approfondimento decisivo delle categorie fondamentali del «divenire cristiano» che continua poi con l’An­ti-Climacus della Malattia mortale e dell’Esercizio del Cristianesimo. Il nucleo di questo approfondimento è nel carattere e nel valore assoluto che ha per l’uomo la rivelazione divina storica e quindi la trascendenza dell’autorità divina per l’uomo storico.

1. La differenza fra la qualità umana (del genio o lautorità umana…) e lautorità divina482: infatti quella è relativa e si dilegua nel tempo, mentre questa è assoluta. Infatti, quando si tratta di autorità o di esercitare l’autorità nell’ambito politico, civile, sociale, familiare, discipli­nare…, l’autorità è soltanto un momento transitorio che si dilegua nel tem­po con tutte le sue differenze. Certo – rispetto alla qualità innata del genio – anche l’autorità terrena costituisce una «differenza qualitativa» – non è una semplice «differenza quantitativa», dovuta a qualità individua­li (genio, doti speciali, ecc.) – ma anche l’autorità terrena scompare nel tempo. La qualità nuova assoluta «spunta fuori solo quando Dio destina un uomo singolo ad avere autorità divina, certamente – si badi bene – solo per ciò che Dio gli ha affidato. È questa la condizione – dopo Cristo e in dipendenza da lui – dellApostolo al quale compete la qualità paradossale specifica dellautorità divina: essa spezza tutti i limiti e le relatività dell’immanenza e pone la trascendenza esistenziale assoluta» (p. 281s.). La conseguenza diretta è che nel Cristianesimo… «La determi­nazione Apostolo appartiene alla trascendenza. LApostolo – in contra­sto col nihil novi dell’antichità e con il relativismo storico del pensiero moderno – ha paradossalmente qualche novità da portare la cui novità, proprio perché è essenzialmente paradossale e non una anticipazione ri­spetto allevoluzione del genere, rimane costante» (p. 273). Kierkegaard spiega: «Geni si nasce, ma Apostoli si diventa per una speciale vocazione di Dio che costituisce l’uomo in autorità e lo invia per una missione divina». Cioè… «un genio è ciò che è grazie a se stesso cioè è ciò che egli è in se stesso; un Apostolo invece è ciò che è grazie alla sua autorità divi­na, ossia in virtù di una rivelazione storica». Perciò «il punto di partenza del genio è dentro l’identità personale con se stesso; il punto di partenza dell’Apostolo è quello della rivelazione che trascende paradossalmente la personalità»483. La vocazione apostolica è detta da Kierkegaard un «factum paradoxale»: mediante quel fatto paradossale l’Apostolo è, per tutta l’eternità, reso diverso dagli altri uomini (p. 274). La novità, che egli deve annunziare, è il paradosso qualitativo essenziale. Per quanto a lungo si predichi nel mondo, esso rimane nella sua essenza egualmente nuovo ed egualmente paradossale: nessuna immanenza può assimilarselo.

2. Lautorità divina è il momento qualitativo «oggettivamente» decisi­vo. Nella sfera religiosa del Cristianesimo, la differenza qualitativa sorge perciò da un preciso evento storico di cui è oggetto un preciso personag­gio storico che è il Cristo e l’Apostolo il quale presenta la «nuova» dottrina, non argomentando dalla convenienza e coerenza e dalla «proba­bilità» della medesima ma sulla propria attestazione che essa è una rivelazione avuta dal Signore. Così io devo inchinarmi davanti a Paolo perché egli ha autorità divina: un’autorità di cui tocca a Paolo, come ad ogni Apostolo, presentare le credenziali, libero ciascuno di credere o non, cioè di accettare o respingere l’autorità dell’Apostolo. Per presentare le verità avute per divina rivelazione, Paolo non può richiamarsi alla sua ingegnosità: sarebbe uno sciocco. Non deve impegnarsi in una discussione puramente estetica o filosofica sul contenuto della sua dottrina: sarebbe uno svagato. No, egli deve richiamarsi alla sua autorità divina e proprio con essa, mentre è disposto a sacrificare la sua vita e tutto il resto, deve impedire le obiezioni indiscrete estetiche e filosofiche dirette contro il contenuto della dottrina. Tu devi riflettere – ammonisce l’Apostolo – che quel che io dico mi è stato affidato con una rivelazione – allora devi sapere che è Dio stesso ossia Gesù Cristo l’Uomo-Dio, che parla e guai a te se hai l’imprudenza di metterti a criticare la forma484.

È vero – ecco il momento soggettivo – ch’io non posso, non oso costringerti ad obbedire, ma tu ti rendi in eterno responsabile – median­te il rapporto della tua coscienza a Dio e a Cristo l’Uomo-Dio, venuto nel tempo – del tuo rapporto a questa dottrina per il fatto che io l’ho predicata come mi è stata rivelata e quindi predicata con autorità divina.

Cioè, la rivelazione cristiana è il «punto fermo» (Holdingspunket) della storia, non soggetto a dialettica qualitativa: «La realtà cristiana non ha storia, perché il Cristianesimo è il paradosso che Dio una volta ha preso esistenza nel tempo. Questo è un “urto” (Anstödet), ma anche un punto di partenza; sia che si tratti di 1800 anni fa o di ieri. (…) Come la stella polare non cambia mai di posizione e perciò non ha storia, così questo paradosso sta incrollabile». E spiega: «Qui la distanza non va misurata con il metro quantitativo del tempo e dello spazio, poiché esso è una decisione qualitativa, un paradosso»485. Ecco perché un evento tem­porale e in sé contingente, ossia la rivelazione cristiana assume un valore assoluto e perché la missione di un uomo particolare, l’Apostolo, rivendica una autorità assoluta – qui c’è, se così si può dire, il «salto qualitativo oggettivo».

3. La qualità decisiva dellatto di fede come «salto qualitativo». – Alla «qualità oggettiva» dell’evento storico della rivelazione e della predica­zione ossia dell’annuncio della salvezza fatto da Cristo e dall’Apostolo, al «salto» della trascendenza nella storia, corrisponde il «salto qualitativo soggettivo», ossia la decisione della fede mediante la quale il credente si trasferisce dal tempo nella trascendenza della vita eterna. Qui la «qua­lità» della libertà sale alla seconda potenza: non si tratta soltanto della «autodeterminazione», propria di ogni atto e rischio della libertà rispetto all’esito dell’atto stesso, ma del «rischio totale» cioè di ammettere che questo uomo Singolo, nato in Palestina al tempo di Cesare Augusto e morto sotto Ponzio Pilato486, è Dio cioè Uomo-Dio e che la sua vera vita non è finita nel tempo ma è quella dell’eternità ossia di Colui che ora siede alla destra del Padre.

L’oggetto della fede cristiana «urta» contro le pretese della ragione di portarlo alla «propria» evidenza e di esaurirlo nelle proprie categorie: per questo Kierkegaard lo chiama «assurdo» e più spesso «paradosso». Kierkegaard non ignora né nega che l’oggetto della fede abbia una propria coesione intelligibile, ma essa non è accessibile alla ragione finita; essa è anzi l’unica verità assoluta e la verità che salva ed è la fede (la grazia della fede) il solo lume capace, perché superiore alla ragione, di farlo accogliere e di generare l’assenso. È questa la «differenza qualitativa» della fede dalla ragione e la fede, non qualsiasi ma la fede cristiana, è legata alla storia della salvezza cioè la «storia sacra» che il pensiero moderno ha preteso coinvolgere nell’immediatezza del sentimento e della storia empiri­ca. Kierkegaard l’ha rilevato con fermezza ancora in un testo giovanile: «Ed ora il Cristianesimo come è stato trattato?… I concetti di Fede, Incarnazione, Tradizione, Ispirazione, i quali nell’ambito cristiano sono da riportare ad un determinato fatto storico, hanno avuto dai filosofi un significato completamente diverso. Così la fede diventa la coscienza imme­diata che in fondo non è altro che il fluido vitale della vita dello spirito, la tradizione è diventata il complesso di una certa esperienza che si è fatta del mondo, mentre l’ispirazione non è diventata altro che il risultato di questo che Dio ha ispirato all’uomo lo spirito vitale e l’Incarnazione… la presenza dell’una o dell’altra Idea in uno o più individui. E non ho ancora nominato il concetto che non è stato soltanto volatilizzato come gli altri, ma perfino profanato: il concetto di salvezza»487. La qualità soggettiva dell’atto di fede segue pertanto alla qualità oggettiva di trascendenza salvifica del suo messaggio.

4. La «contemporaneità» con Cristo come attuazione del «salto qualitativo». Se uno prende sul serio la fede cristiana, non come una distrazione intellettuale ma come la trasformazione in Cristo della propria vita, non c’è che una via: la «contemporaneità» (Samtidighed) con Cristo, la «dialettica qualitativa» è allora l’attuarsi di questa contempo­raneità ch’è l’imitazione di Cristo. Si tratta anzitutto che per ogni cristia­no, ad ogni momento della storia del Cristianesimo – non vi sono progressi488 né differenze su questo punto poiché il compito è uguale per tutti – s’impone… «il dovere – nella tensione della contemporaneità – o di scandalizzarsi o credere. Ed a questo fine è proprio necessario librarsi in aria in modo che l’uomo, come una volta, o si scandalizza sul serio, oppure credendo si dà alla realtà cristiana». Perciò «… è la situazione della contemporaneità che tiene in tensione, che dà l’elasticità qualitativa alle categorie».

Altro è quindi il significato della rilevanza che ha la realtà della Perso­na storica di Cristo e quella seguente del Cristianesimo, ossia del­la «durata» della Cristianità: la contemporaneità si rapporta alla prima non alla seconda storia poiché questa stessa, la storia della Chiesa, sarà cioè giudicata con la prima, sia che duri da 200 anni o da 10.000 anni. Si tratta che per ogni Cristianesimo, sia dei primi secoli come di oggi e del futuro, l’esigenza della contemporaneità con Cristo è la medesima. «A questo scopo è importan­te ricordare soprattutto ch’è stata fissata la differenza incrollabile qualita­tiva fra l’elemento storico costitutivo del Cristianesimo (il paradosso che l’Eterno è entrato una volta nel tempo, questo fatto paradossale) e la storia del Cristianesimo, ossia la storia dei suoi seguaci, ecc. Che Dio sia diventato in figura umana sotto Cesare Augusto, è l’elemento storico costitutivo del Cristianesimo nella sintesi paradossale dell’Uomo-Dio. È con questo paradosso che ognuno, qualunque sia il secolo in cui vive, deve diventare contemporaneo se vuol diventare un cristiano credente. La storia del Cristianesimo non ha sotto questo aspetto molto a che fare»489. È questa la risposta del credente al «problema di Lessing».

La contemporaneità come attuazione della fede nell’Uomo-Dio è svi­luppata, come si è detto, da Anti-Climacus (Malattia mortale, Esercizio del Cristianesimo) e nei diari della maturità. Essa abbraccia due momenti fra loro solidali in tensione dialettica: Cristo-Modello e Cristo-Grazia. L’imi­tazione del Modello comporta l’accettazione della «sofferenza», lo sforzo della rinunzia al mondo, la testimonianza della fede: qui la contempora­neità consiste nel vedere Cristo presente nei malati, nei poveri, nelle vittime dell’ingiustizia, nei sofferenti di ogni genere… (X2 A 247, nr. 2684). Ma nel confronto col Modello, il cristiano vede l’infinita distanza soprat­tutto nel peso del peccato e qui interviene il ricorso alla Grazia acquista­taci con la Passione e Morte del Modello: la dialettica di libertà e Grazia nella «contemporaneità» non è quindi per eliminare la sofferenza, ma per compiere con essa l’imitazione del Modello (X3 A 276, nr. 3076). Tale, pertanto, l’essenza della dialettica qualitativa ossia alla seconda potenza, qual è quella del cristiano mediante il «salto» della fede.

Ma tutta la filosofia moderna – è la contestazione fondamentale di Kierkegaard – ha fatto il possibile per metterci in testa che la fede è una determinazione immediata, ch’è lo stato immediato; una concezione la quale a sua volta è solidale coll’aver eliminato la possibilità dello scandalo, coll’a­ver ridotto il Cristianesimo ad una «dottrina», coll’aver tolto di mezzo l’Uomo-Dio e la situazione della contemporaneità. Tutto questo sarebbe per­fettamente esatto qualora il Cristianesimo fosse una dottrina; poiché esso non lo è, la concezione moderna è completamente insensata. La fede in senso pregnante si rapporta all’Uomo-Dio. Ma l’Uomo-Dio è segno di contraddizione, nega la comunicazione diretta ed esige la fede490. La fede, quale è professata nel Cristianesimo, si fonda sul fatto storico che Dio è entrato nel tempo, ha preso parte alla storia dell’uomo, è «entrato» nel tempo: è nato, vissuto, morto sotto Ponzio Pilato ed è risorto. Si badi bene: la fede cristiana si rapporta al tempo e fa del tempo l’istanza per l’eternità, la «qualità» dell’eternità ossia la salvezza dipende dal tempo, ossia dalla scelta qualitativa fatta nel tempo. Il paradosso è che è il tempo, la decisione fatta nel presente transeunte del tempo, ciò che qualifica il futuro ossia il permanere dell’eternità. Mentre per il verti­calismo dell’idealismo speculativo la storia, l’elemento storico, è assor­bito dall’Assoluto speculativo in sé immobile così come l’eterna verità del transeunte e nell’orizzontalismo delle filosofie contemporanee la sto­ria si diluisce nei nessi empirici dell’evento temporale491: per il Cristia­nesimo l’istante temporale della scelta decide la qualità dell’esistenza già nel presente, non nella sua astratta immediatezza ma nel suo riferimento di valore assoluto all’eternità stessa. Il paradosso della fede si pone nel tempo, cioè nella storia che è il farsi e qualificarsi della persona contro la storia universale, contro la pretesa che la storia faccia giustizia della storia: invece di dar fiducia all’uomo che la storia sarà giudicata dall’eternità.

IX. La dinamica della dialettica qualitativa kierkegaardiana. L’esi­stenza è il tragitto, come l’avventura è il «rischio» della libertà nel tempo. Nel pensiero classico il rischio si affloscia nell’ineluttabilità della fu,sij, nell’alternarsi del suo sorgere e perire ove si erge l’eroe tragico (Antigone) e l’eroe morale (Socrate). Nel pensiero moderno il corso dell’esistenza è livellato all’universale umano (lo Stato, la classe, il partito) nel suo attuarsi storico: la qualità è assorbita dalla quantità e la libertà dalla necessità – il rischio si dilegua nel fato antropologico. Nel pensiero cristiano il dramma dell’esistenza è contenuto fra due atti di amore: la creazione libera del mondo e dell’uomo da parte di Dio, la scel­ta libera di Dio da parte dell’uomo. La preminenza non è più dell’intel­ligenza e della ragione, ma dell’amore e della libertà. È questa l’essenza della dialettica qualitativa nella protesta gigantesca fatta da Kierkegaard al pensiero moderno.

1. La terminologia. – Il termine di dialettica qualitativa compare nella Postilla, quasi d’improvviso492, e diventa sinonimo della trascenden­za e della libertà di scelta nella fede e perciò dell’originalità dell’esistenza cristiana: ma è il Libro su Adler che esplora la nuova terra sconosciuta. La terminologia stessa si dilata con insistenza creando attorno alla libertà lo spazio vitale della qualità: un fiorire di sfumature quali l’educazione dialettica qualitativa, la misura dialettica qualitativa, la differenza e distin­zione dialettica qualitativa, il paradosso dialettico qualitativo, la passione dialettica qualitativa che dà insieme l’elasticità qualitativa onde sorge la categoria del salto qualitativo sul fondamento della verità eterna in senso qualitativo. L’uso tecnico del termine tecnico (dialettica qualitativa) com­pare nel Diario, contemporaneo alla Postilla, in polemica con la scienza positivistica: «Uno psicologo di spirito ammetterà che non c’è analogia alcuna fra gli animali e l’uomo: ammetterà in breve la dialettica qualitati­va»493.

Il Libro su Adler enuncia tre dialettiche qualitative fondamentali:

1) fra Dio e l’uomo;

2) fra Cristo ed ogni altro eletto;

3) fra l’Apostolo e il genio.

Il concetto esatto di dialettica qualitativa, pertanto, non si fissa in una definizione logica, ma si sviluppa in un crescendo di riflessione esistenziale: si potrebbe dire, secondo la formula della Malattia mortale, la dialettica dell’Io come spirito, ossia dell’io proiettato dal tempo nell’eternità. Que­st’io «… acquista una nuova qualità e qualificazione per il fatto che esso è un io di fronte a Dio. Quest’io non è più l’io meramente umano, ma è ciò che, sperando di non essere frainteso, vorrei chiamare l’io teologico»494. L’io in questa doppia riflessione, davanti a Dio e a Gesù Cristo, è l’io del «raddoppiamento qualitativo il quale, mentre lavora, controbatte se stesso; oppure è la semplicità qualitativa in carattere: tertium non datur»495. Per questo la dialettica qualitativa nell’ambito cristiano è essenzialmente soffe­renza: «La realtà cristiana è quella cosa più alta che si riflette sempre in modo inverso. Ogni cosa più alta che si riflette in modo diretto non è Cristianesimo. Ma che il Cristianesimo debba riflettersi in modo inverso, ciò dipende dal fatto che il finito e l’infinito, il tempo e l’eternità sono qualitativamente eterogenei. L’infinito è ben altra cosa da un superlativo o il superlativo più superlativo del finito»496.

2. La misura qualitativa dellio: lessere davanti a Dio. – L’io come spirito è in fieri. Sospeso tra il tempo e l’eternità, tra il finito e l’infinito, fra la possibilità e la realtà, l’io si presenta come un rapporto che è un rapporto a se stesso. Esso è ciò che diventa, ossia ciò che sceglie di essere o per il finito o per l’infinito e perciò finito o infinito, per il tempo o l’eternità e quindi o temporale o eterno – cioè la sua qualità è in conformi­tà della misura che esso stesso si dà nella libertà. Quindi: un io la cui misura è Dio, che ha la coscienza di esistere davanti a Dio, acquista realtà infinita. Per trovare la misura per l’io, bisogna domandare che cosa è ciò di fronte a cui esso è io. Ed esemplifica: un mandriano il quale (se questo fosse possibile) è un io di fronte alle vacche, è un io molto basso; un sovrano che è un io di fronte ai suoi servi e ai suoi sudditi, è lo stesso ed in fondo nessuno dei due è un io: in ambedue i casi manca la misura497. Solo nella religione rivelata quindi – con la qualità di «essere davanti a Dio» – l’io ottiene la sua consistenza mediante la sua misura che è Dio: nella religione A come dipendenza nell’essere della creatura dal suo creatore, nella religione B come decisione della fede in Cristo per la salvezza eterna dal peccato.

A differenza delle teologie gnostiche per le quali il peccato è solo un difetto e il peccato non è più grande perché è davanti a Dio – mentre anche i giuristi parlano di «delitti qualificati» e distinguono se un delitto è stato commesso contro un pubblico funzionario o un cittadino comune, se si tratta di un parricidio o di un omicidio comune – la dogmatica antica aveva ragione di affermare che il peccato, per essere contro Dio, si eleva ad una potenza infinita. L’errore allora stava nel fatto di considerare Dio come qualcosa di esteriore e di supporre che si peccasse contro Dio solo qualche volta. Ma Dio non è qualcosa di esteriore come un agente di polizia: il peccato del pagano e dell’uomo meramente naturale è quindi quello di non essere davanti a Dio, cioè l’uomo naturale non ammette di peccare, e solo al più di sbagliare: secondo la filosofia moderna è convinto di poter rispettare se stesso, ma in realtà egli perde il proprio io. Invece, per il cristiano il peccato è nella «qualità» (sbagliata) del rapporto del proprio io davanti a Dio cioè disperatamente, davanti a Dio, di non voler essere se stesso oppure davanti a Dio disperatamente di voler essere se stesso – quindi in ambedue i casi un’affermazione di indipen­denza sbagliata498, quindi di disobbedienza e pertanto di ribellione dell’io a Dio ai vari livelli: sensuale, psichico, spirituale. A Socrate mancava la nozione cristiana del peccato; Socrate e tutta la grecità non potevano comprendere che un uomo consapevolmente potesse fare ciò che non è giusto, ossia che egli, conoscendo il bene, potesse fare il male – cioè non si conosceva o non si ammetteva alla radice la «differenza qualitativa» tra il capire e il fare, fra l’intelletto e la volontà, non si ammetteva la differenza qualitativa nel passaggio dal comprendere al fare499. In sostan­za, questa convergenza – identità di conoscere e agire – è anche la posizione della filosofia moderna: ma ciò che è decisamente antisocratico è che la filosofia moderna – Hegel soprattutto e la destra hegeliana – vuole far credere a sé e a noi che ciò è cristianesimo.

Il peccato (e perciò la «differenza qualitativa») nella vita dello spirito ha quindi origine dalla volontà: dunque se un uomo, nello stesso momento, in cui ha conosciuto il bene, non lo fa – allora si affievolisce in lui il fuoco della conoscenza. Kierkegaard ha qui un’espressione potente: «La volontà è un principio dialettico e tiene sotto di sé la natura interiore dell’uomo e la stessa intelligenza». Perciò ad ogni conoscenza resta il problema che cosa fa la volontà di ciò che si è conosciuto. E spiega che la volontà è responsabile del comportamento aberrante che porta al peccato: se a questa (alla volontà) non piace ciò che l’uomo ha conosciuto, essa si mette a nicchiare, lasciar passare un po’ di tempo in modo da avere un interim, cioè… stiamo a vedere fino a domani come vanno o come si mettono le cose! Nel frattempo la conoscenza si oscura sempre di più e gli istinti più bassi prendono sempre più il sopravvento. Così, a poco a poco, la volontà non ha più nulla in contrario che la cosa si faccia e l’arbitrioviii, in balia della passione dei sensi o della superbia dello spirito, ha preso il posto della volontà e riconosce che è perfetta­mente giusto ciò che vuole. È il «salto», ma in basso, è la caduta qualitativa dopo l’oscuramento della conoscenza etica ed etico-religiosa. Quindi il peccato nel concetto cristiano consiste nella volontà, ossia è una «posizione», non consiste nella conoscenza e la conoscenza di questa corruzione si ha solo per rivelazione da Dio500.

Per il cristianesimo il peccato è «una posizione» e lo scandalo è una categoria cristiana. Il peccato pone perciò il primo salto qualitativo decisi­vo nella tensione di tempo ed eternità: di qui appunto l’eternità delle pene dell’inferno. In senso cristiano si deve dire allora: «il peccato è, dopo aver saputo per mezzo di una rivelazione divina che cos’è il peccato, davanti a Dio o disperatamente non voler essere se stesso o disperatamen­te voler essere se stesso»501 – e così l’io, grazie all’idea di Dio è elevato ad una potenza infinita.

3. Dal salto della caduta nel peccato al salto della salvezza nella fede in Cristo (l’io «di fronte a Cristo»). L’io di fronte a Dio per il cristiano sale di una nuova qualità: diventa l’io di fronte a Cristo, l’Uomo-Dio. Si potrebbe dire, con una riflessione dogmatico-esistenziale, che per l’unio­ne ipostatica, ossia per il fatto che in questa persona davanti a me, Gesù Cristo, che è veramente uomo e Dio, Dio si è infinitamente avvicinato all’uomo quasi nascondendo la divinità (Fl 2,5-9): ma bensì si deve anche dire che per il fatto che quest’uomo, Gesù Cristo, è veramente in­sieme Dio e che, per salvare l’uomo dal peccato, è diventato quest’uomo par­ticolare per soffrire e morire, si è infinitamente distanziato dall’uomo con la distanza esistenziale infinita ch’è la qualità dell’amore infinito misericor­dioso. Tensione infinita ch’è di vicinanza infinita e di distanza infinita fra cui la libertà decide: o lo scandalo o la fede. Così si deve allora dire che se un io di fronte a Dio attingeva la misura e qualità divina, un io di fronte a Cristo è un io potenziato da un’immensa concessione di Dio, potenziato per l’importanza immensa che gli viene concessa dal fatto che Dio, anche per l’amore di quest’io, si degnò di nascere, s’incarnò, soffrì e morì. Anche la formula precedente sul salto qualitativo dell’io, va ora integrata: come prima si è detto, più idea di Dio e più io, anche qui bisogna dire: più idea di Cristo e più io502.

Infatti, se, come si è visto, un io è qualitativamente ciò che è la sua misura; ossia nel fatto che Cristo è la misura, si esprime da parte di Dio con la massima evidenza l’immensa realtà che ha l’io, perché soltanto in Cristo è vero che Dio è meta e misura dell’uomo. Con la venuta, pertanto, nel tempo (storia) dell’Uomo-Dio, il rapporto dell’uomo a Dio acquista una qualità nuova che deve penetrare tutto l’ambito etico del «tu devi» cristiano, il quale pone l’alternativa; o credere o scandalizzarsi. Ecco allora: «tu devi credere» – «tu devi credere nella remissione dei peccati» – tu sarai infelice se non lo puoi perché ciò che si deve, anche si può. Chi non crede, pecca, pecca di scandalo come si scandalizzarono i Giudei al sentire che Cristo rimetteva i peccati. Così lo scandalo della ragione – di fronte a Cristo – è il momento dialettico qualitativo dirimente nel Cristianesimo; infatti lo scandalo come possibilità tolta è un momento della fede, ma lo scandalo che allontana dalla fede – come per i Giudei, per Celso ed i liberi pensatori, per gli apostati… – è peccato, il peccato qualificato kat’evxoch,n. Perciò quel pensatore biblico, che è Kierkegaard, può affermare che «il Cristianesimo comincia con la dottrina del peccato e perciò con il Singolo». E quindi sorge qui una qualità nuova della libertà che non si vede nell’antitesi ancora formale di tempo ed eternità e neppure in quella di «Dio in cielo ed io in terra» di K. Barth: davanti a Cristo è il rapporto dell’io al peccato il punctum dirimens poiché esso è lo sfondo della venuta «dell’Uomo-Dio, di Dio in figura di servo» (Fl 2,7). Allora la dottrina del peccato, secondo la quale tu ed io siamo peccatori, una dottrina la quale assolutamente spezza la massa, stabilisce una differenza qualitativa tra Dio e l’uomo così profonda come non era mai stata stabilita: con il peccato pertanto l’uomo è separato da Dio, dalla profondità più abissale della qualità, quando rimette i peccati.

La Malattia mortale termina con la qualificazione nello scandalo nei suoi tre gradi:

1) Lasciare senza risoluzione tutto il problema intorno a Cristo (forma negativa). Ma il fatto che il Cristianesimo ti è stato annunziato, significa che tu devi farti un’opinione intorno a Cristo.

2) L’uomo sente bene che non può ignorare Cristo, lasciare senza risposta la questione dell’esistenza di Cristo, ma non può neppure credere e così continua a fissare lo sguardo sempre sullo stesso punto, sul paradosso – un tale scandalizzato passa la vita come un’ombra (forma passiva).

3) L’uomo dichiara che il Cristianesimo è falsità e menzogna, nega che Cristo sia esistito e sia stato quello che diceva di essere, cioè egli nega o la verità della sua umanità (docetismo) o quella della sua divinità (gnosticismo, razionalismo): è la forma attiva dello scandalo, il peccato contro lo Spirito Santo. Come i Giudei dicevano che Cristo scacciava il diavolo con l’aiuto del diavolo, così questa forma di scandalo fa del Cristo un’invenzione del diavolo503. A questo climax qualitativo del rapporto dell’uomo all’Uomo-Dio deve corrispondere la tensione o supertensione qualitativa dell’aspirazione del cristiano di conformarsi al Modello con l’imitazione di Cristo.

Calandosi nella realtà di un mondo immerso nel peccato e nell’incredu­lità ossia di quel mondo che, ieri come oggi, grida: «Viva Barabba!» e «Crocifiggilo, crocifiggilo», la dialettica qualitativa di questa tensione fini­rà soltanto con il giudizio di Cristo alla fine della storia. È il tema dell’al­tra mirabile analisi di Anti-Climacus: L’Esercizio del Cristianesimo del 1850.

X. Conclusione: la libertà delluomo di fronte a Dio e di fronte a Cristo come principio della dialettica nella qualità e della qualità nella dialettica.

1. L’uomo pecca e crede, si perde e si salva, cioè sta davanti a Dio come Singolo: «L’uomo si distingue dalle altre specie animali non solo per i pregi d’intelligenza che di solito si enumerano, ma, qualitativamente (cioè) per il fatto che grazie alla libertà l’individuo è più alto della specie. Ma questa qualità è di nuovo dialettica; perché essa da una parte significa che il Singolo è peccatore, ma anche d’altra parte essa afferma che la per­fezione è essere il Singolo»504. Perciò ogni collettivismo aperto e ogni concezione dello spirito come universalità del genere, così come ogni in­dividualismo chiuso, cioè che non faccia capo a Dio, distruggono la libertà e l’originalità della qualità dell’uomo (il Singolo) come spirito.

2. L’uomo pecca e crede, si perde e si salva, a seconda della qualità dell’atto col quale ogni Singolo sceglie ossia decide di rapportarsi a Cristo, l’Uomo-Dio, ossia di come l’uomo come Singolo considera il peccato e si considera peccatore ed accetta pertanto la dottrina della remissione dei peccati mediante la redenzione di Cristo. È la qualità fondamentale nella discesa o abbassamento di Dio in Cristo come Singolo entrato nel tempo – mediante la sua Nascita, Vita, Passione e Morte – e diventato con la Risurrezione e Ascensione alla Destra del Padre l’unico Salvatore e pertan­to il giudice di ogni Singolo e dell’intero corso della storia: «Così l’abbas­samento è in un certo senso elevatezza»505.

3. L’uomo crede e si salva in quanto «segue» l’Uomo-Dio come Modello: «C’è un solo Nome in cielo e in terra, solo una Via, solo un Modello. Colui che sceglie d’imitare Cristo, ha scelto il Nome che è più alto di ogni nome (Fl 2,10), il Modello che è più elevato di tutti i cieli – così che fra il cielo e la terra non c’è che un’unica via: seguire Cristo, fra il tempo e l’eternità c’è un’Unica scelta: scegliere questa via, sulla terra; un’unica speranza: seguire Cristo fino al cielo e nella vita; un’unica gioia: seguire Cristo nella vita e nella morte; un’ultima beata gioia: seguire Cristo fino alla vita»506.

Così Kierkegaard accomuna nella condanna del rifiuto della «dialetti­ca qualitativa», quale è esposta nel Nuovo Testamento, sia la speculazione moderna che non riconosce Cristo come l’Uomo-Dio, sia la Cristianità stabilita che non lo segue come Modello, ma se Lo appropria solo come Salvatore per accomodarsi e acculturarsi al mondo.

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429 «Das Wahre ist so das baccantische Taumel» (G. Hegel, Phänomenologie…, Vorrede; ed. Hoffmeister, p. 39).

430 «Die wahre Gestalt, in welcher die Wahrheit existiert, kann allein das wissenschaftliche System derselben sein» (G. Hegel, Phänomenologie…, Vorrede, ed. cit., p. 12). Ed un po’ più sotto: «Das Wahre ist das Ganze. Das Ganze aber ist nur das durch seine Entwicklung sich vollendende Wesen» (p. 21).

431 Mentre Jaspers e Heidegger, e con loro Sartre, ignorano la dialettica qualitati­va, l’afferma invece espressamente (com’è noto) K. Barth che nel 1922 attribuisce a Kierkegaard il rinnovamento della teologia contemporanea e della propria: «Se io ho un “sistema”, allora esso consiste in questo che io tengo il più possibile sempre davanti agli occhi nel suo significato positivo e negativo ciò che Kierkegaard chiama la “differenza qualitativa infinita” (unendliche qualitative Unterschied) di tempo ed eternità. Dio in cielo e tu sulla terra. Il rapporto di questo Dio a questo uomo, il rapporto di questo uomo a questo Dio è per me il tema della Bibbia ed insieme la somma della filosofia» (K. Barth, Der Römerbrief, Zürich 19407, p. III).

432 M. Heidegger, Vom Wesen der Wahrheit, §§ 3-4, ed. cit., p. 12s., p. 15.

433 M. Heidegger, ibid., § 4, ed. cit., p. 15.

434 «Freiheit enthüllt sich jetzt als das Seinlassen von Seienden» (M. Heidegger, ibid., § 4, ed. cit., p. 14).

435 Il testo della definizione è illuminante: «Das Wesen der Wahrheit enthüllt sich als Freiheit. Diese (= la libertà) ist das eksistente, entbergende Seinlassen des Seienden» (M. Heidegger, Vom Wesen der Wahrheit5, p. 18). Di qui l’immagine della filosofia come «circolo» e «circolo di circoli» (Kreis der Kreisen), frequente in Hegel (Phänomenologie…, Vorrede, ed. cit., p. 20, p. 31).

436 «Sein, reines Sein, – ohne alle weitere Bestimmung. In seiner unbestimmten Unmittelbarkeit ist es nur sich selbst gleich… Es ist die reine Unbestimmtheit und Leere» (G. Hegel, Wissenschaft der Logik, I. Abschnitt: Bestimmtheit. Qualität; ed. Lasson, Bd. I, p. 66).

437 «Man kann das “Kapital” von Marx und besonders das erste Kapitel nicht vollkommen begreifen, wenn man nicht die ganze Logik Hegels durchstudiert und begriffen hat. Folglich hat nach einem halben Jahrhundert keiner von den Marxisten Marx begriffen!» (W. Lenin, Aus dem philosophischen Nachlass, Excepte und Randglossen, Berlin 1958, p. 99. Cf. al riguardo la nostra Introduzione: Feuerbach-Marx­-Engels. Materialismo dialettico e materialismo storico, Brescia 19704, p. LXXXIss.).

438 I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, Elementarlehre, II. Teil, I. Abt., I. Buch, I. Hauptst., 3. Abschn.; B 113ss. (manca nell’ed. A). Seguo il testo della ed. Reclam di Schmidt-Bergner, Leipzig 1956, p. 155ss.

439 Cf. p. es. l’esposizione magistrale: De Ver., q. 1, aa. 1-12 ch’è ripresa in forma sintetica nella S. Th., Ia, q. 16, aa. 1-8.

440 Questo principio è già presente nell’ei=doj platonico e soprattutto nella composizione di u[lh-morfh, aristotelica, svisata da Kant.

441 Nel saggio Kants These über das Sein (Frankfurt a. M. 1963) Heidegger dimostra chiaramente che le categorie della modalità (possibilità-realtà-necessità) sono funzioni del pensiero, cioè un «rapporto» di concetti (p. 25).

442 I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, Elementarlehre, II. Teil, II. Buch, II. Hauptst., A 599, B 626; ed. cit., p. 655ss.

443 M. Heidegger, Kants These…, p. 10.

444 A questo proposito perciò Heidegger può osservare: «In questa situazione (Sachverhalt) è posto il fondamento per ciò che con Hegel, sulla via, al di là di Fichte e Schelling, sarà la “scienza della Logica” (Wissenschaft der Logik), per un movimento di principi (Grundsätzen) che circola in se stesso, il quale è la “stessa assolutezza dell’essere”» (Kants These…, p. 22).

445 M. Heidegger, Die Frage nach dem Ding. Zu Kants Lehre von den transzendentalen Grundsätzen, Tübingen 1962, spec. p. 183ss.

446 I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, A 218, B 265.

447 Proprietà dell’intelletto, grazie alla coscienza della spontaneità ossia originarietà della coscienza che caratterizza il trascendentale moderno dopo Kant, ispirato da Leibniz: spontaneità teoretica (Ich denke) e spontaneità pratica (libertà) come «produzione di unità», ossia unificazione da parte del Soggetto: «L’autocoscienza della persona operante è coscienza della spontaneità. La coscienza della libera spontaneità, la coscienza ch’io posso agire con una decisione libera, la coscienza della spontaneità è ciò in cui si illumina l’esistenza intelligibile del mio Io invisibile» (G. Martin, Immanuel Kant. Ontologie und Wissenschaftstheorie, § 21; Vierte, durchge­sehene und mit einem dritten Teil vermehrte Auflage, Berlin 1969, p. 203). L’A. di­fende la tesi di un accordo di fondo fra S. Tommaso e Kant sulla base della distinzio­ne dell’Unum trascendentale e predicamentale (Cf. la nostra critica in Rassegna di letteratura tomistica, IV [1972] pp. 338-345).

448 Il termine è dello stesso Hegel (ein qualitativer Sprung) applicato allo sviluppo del bambino dalla sfera biologica alla «nuova forma dello Spirito che si sta for­mando» (Phänomenologie…, Vorrede, ed. cit., p. 15).

449 «Die Prinzipien der Volksgeister sind um ihrer Besonderheit willen… überhaupt beschränkte, und ihre Schicksale und Taten in ihrem Verhältnisse zueinander sind die erscheinende Dialektik der Endlichkeit dieser Geister, aus welcher der allgemeine Geist, der Geist der Welt, als unbeschränkt ebenso sich hervorbringt, als er es ist, der sein Recht, – und sein Recht ist das allerhöchste, – an ihnen in der Weltgeschichte, als dem Weltgerichte, ausübt» (G. Hegel, Grundlinien…, § 340; ed. Hoffmeister, p. 288).

450 Non tutti i testi hegeliani, che citiamo, potevano essere noti a Kierkegaard, perché alcuni erano inediti al suo tempo, ma la dottrina è la medesima delle opere già note a Kierkegaard.

451 G. Hegel, Jenenser Realphilosophie, II. Bd., Natur- und Geistesphilosophie; ed. Hoffmeister, S.W., Bd. XX, p. 272s. – Una formula ancora più incisiva e didattica si legge nella prima parte: «Die Natur ist im Raume; die ganze vergangene Geschichte bleibt gegenwärtig: der Geist ist Zeit; er hat die Vergangenheit, seine Erziehung vernichtet» (ed. cit., S.W., Bd XIX, p. 4). Ha attirato l’attenzione su questo testo A. Koyrè, «Hegel à Jena», Revue dHistoire et de Philosophie religieuse 15 [1935] pp. 420-431).

452 G. Hegel, Enzyklopädie… 1830, §§ 367 e 220; ed. Nicolin-Pöggeler, Hamburg 1959, pp. 303 e 187.

453 G. Hegel, Wissenschaft der Logik, I. Buch, Die Lehre vom Sein: Womit muss der Anfang der Wissenschaft gemacht werden? (ed. Lasson, Bd. I, p. 63ss.).

454 G. Hegel, Wissenschaft der Logik; ed. Lasson, Bd. I, p. 66s.

455 G. Hegel, Philosophische Enzyklopädie für die Oberklasse, § 16, in Nürnber­ger Schriften, ed. cit., p. 239s.

456 G. Hegel, Jenenser Realphilosophie; ed. cit., II. Bd., p. 3.

457 I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, A 142, B 181.

458 G. Hegel, Nürnberger Schriften 18081816, § 12; ed. cit., S.W., Bd. XXI, p. 328.

459 «Das Dialektische zeigt sie (die Begriffe) in ihrem Übergehen und ihre Auflösung auf». Di qui Hegel passa allo «speculativo» o razionale positivo il quale apprende (erfasst) la loro unità nella loro opposizione, ossia il positivo nella dissoluzione e nel trapassare (loc. cit.). Qui è ormai superfluo osservare che l’ambiguità o piuttosto l’impossibilità, già rilevata nel dialettico, si ripete aggravata.

460 S. Kierkegaard, Postilla…, P. II, sez. II, c. 3, I; Opere, p. 423 ss.

461 G. Hegel, Phänomenologie…, Vorrede, ed. cit., p. 19.

462 «Es ist nichts in ihm anzuschauen, wenn von Anschauen hier gesprochen werden kann; oder ist nur dies reine, leere Anschauen selbst» (G. Hegel, Wissenschaft…; ed. Lasson Bd. I, p. 66s.).

463 S. Kierkegaard, Postilla…, P. II, Sez. II, C. 3; S.V. VII, p. 301s.; Opere, ed. cit., p. 430s.

464 Lo ha espressamente rilevato L. Reimer,«Die Wiederholung als Problem der Erlösung bei Kierkegaard», Kierkegaardiana 7 (1968) p. 46ss.

465 La letteratura sui rapporti Hegel-Kierkegaard è assai abbondante. Fino alla produzione di Jo. Climacus (eccettuato quindi il Libro su Adler), cf. N. Thulstrup, Kierkegaard Forhold til Hegel og til den spekulative Idealisme indtil 1846, Cope­naghen 1976; Id., Kierkegaards Verhältnis zu Hegel. Forschungsgeschichte, Stuttgart 1969. Ignora il Libro su Adler lo studio di E. von Hagen, Abstraktion und Konkretion bei Hegel und Kierkegaard, Bonn 1969. Un’analisi d’insieme, sia per i Vaerker come per i Papirer, è data nel nostro studio: «Kierkegaard critico di Hegel», in Incidenza di Hegel, Napoli 1970, p. 527ss. – con bibliografia (p. 593s.).

466 S. Kierkegaard, Postilla…, loc. cit., S.V. VII, p. 119s.; tr. it., Opere, p. 329 a. – Perciò il principio hegeliano che «l’esterno è l’interno» (das Äussere ist das Innere – Wissenschaft der Logik, II. Buch, I. Abschn., 3. Kap.; ed. Lasson Bd. II, p. 152; Enzyklopädie…, §§ 138-141). Kierkegaard attacca questo caposaldo della dialettica hegeliana fin dall’inizio della sua attività letteraria, nella Prefazione a Enten-Eller, S.V. I, p. III, Cf. anche: Stadier paa Livets Vej, S.V. V, p. 396; Diario VII1 A 186; (tr. it., nr. 1271, t. III, p. 244ss.).

467 S. Kierkegaard, Postilla…, P. II, Sez. II, C. 3; S.V. VII, p. 295s.; tr. it., Opere, p. 427s.

468 S. Kierkegaard, Postilla…, P. II, Sez. II, c. 2; S.V. VII, p. 181; tr. it., Opere, p. 364 a.

469 Probabilmente in polemica col pastore Adler, ma soprattutto con l’hegelismo dominante, Kierkegaard il 4 luglio 1840 osserva che «la storia è unità di metafisica e di casualità… e che questa unità punto di vista di Dio è la “Provvidenza”: dal punto di vista degli uomini è la “storia”» (Diario 1840, III A I; tr. it., nr. 654, t. III, p. 9).

470 S. Kierkegaard, Postilla…, P. II, Sez. II, c. I; S.V. VII, p. 126; tr. it., Opere, p. 333 a.

471 S. Kierkegaard, ibid., P. II, Sez. II, c. 2; S.V. VII, p. 182; tr. it., Opere, p. 364 b.

472 L’inevitabilità di questa «sostituzione» (Enthobung), che si profila già in Kant, è analizzata ampiamente da Heidegger nella discussione del problema fonda­mentale della Kritik der reinen Vernunft (Cf. Das Ding, ed. cit., p. 131ss.). Heidegger mostra in un modo del tutto pertinente, come già aveva intuito prima Leibniz (ed. Gerhardt, t. IV, p. 394s.), che la conclusione dell’Analitica di Kant è il «carattere matematico e dinamico» – la funzione dell’unità e della forza (Kraft) – dei nuovi principi per la conoscenza del reale (ibid., p. 148s.).

473 S. Kierkegaard, Diario 1849-1850, X2 A 396; tr. it., nr. 2771, t. VII, p. 70.

474 Seguo: Postilla…, P. II, Sez. II, c. 4; S.V. VII, p. 552ss.; Opere, p. 572ss.

475 Kierkegaard aveva attinto questa dottrina della tradizione nell’esposizione che i due sommi storici della Chiesa, J. A. Möhler e J. Görres, avevano fatto nelle rispettive monografie: Athanasius der Grosse, che sono citate nei Papirer (II A 304 e 745). Sullo sviluppo dei rapporti fra il giovane Kierkegaard e il cattolico Möhler, rimando allo studio: «Spunti cattolici nel pensiero religioso di Kierkegaard», Doctor Communis 4 (1973) pp. 251-280.

476 «Det Paradoxe er, at Christus er kommen til Verden for at lide» (S. Kierkegaard, Postilla…, Slutning; S.V. VII, p. 588, tr. it., Opere, cit., p. 593 b – corsivo di Kierkegaard). Kierkegaard ha scritto come è noto il «Vangelo delle sofferenze» (Lidelsernes Evangelium, S.V. VIII, pp. 351-448) ch’è uno dei gioielli della sua produzione edificante (tr. it., in Opere, p. 829ss.). Sulla sofferenza nell’opera di Kierkegaard c’è ora l’antologia di D. Hoffmann, Søren Kierkegaard, Christ aus Leidenschaft, Berlin 1963.

477 Il problema si trova già proposto con chiarezza in un importante appunto del 1842-43 a riguardo dell’affermazione di Leibniz che le regole dell’armonia esistono prima che qualcuno suoni (Cf. Theodicée, § 181). Ma questo, secondo Kierkegaard, non prova nulla: «Per questa via non si prova se non la verità astratta. Ma il Cristianesimo è una verità storica, come può allora essere la verità assoluta? Se esso è la verità storica, esso è apparso in un certo tempo e in un certo luogo ed è valido quindi solo per un certo tempo e un certo luogo. Se si vuole dire che esso è esistito prima che fosse divenuto, come è l’armonia, allora non si dice di esso di più di qualsiasi altra idea poiché anch’esso è: a’patwr a’mhtwr avgenealo,ghtoj (Ebr 7,3); se s’insiste (urgerer) con forza su questo, allora si snerva l’essenza del Cristianesimo; poiché la realtà storica (det Historiske) è precisamente per esso l’essenziale, mentre per le altre idee esso è l’accidentale» (Diario IV, C 35, p. 388). Questo, ch’è il punto essenziale per afferrare la dialettica qualitativa di Kierkegaard, è completamente frainteso dal teologo grundtvigiano K. L. Lögstrup, Opgör med Kierkegaard, Copenaghen 1968, spec. P. I: «Kristendom uden den historiske Jesus», p. II ss., spec. 19ss. e 34ss.; Id., Kunst og Etik, Copenaghen 1961, p. 55ss., spec. 157ss. E vedi ora la risposta di un autentico kierkegaardiano: G. Malantschuck, «Lögtrups Opgör med Kierkegaard», Kierkegaardiana 8 (1971) p. 163ss.

478 Cf. S. Kierkegaard, Diario 1849-1850, X2 A 401; tr. it., nr. 2775, t. VII, p. 74.

479 S. Kierkegaard, ibid., X2 A 501; tr. it., nr. 2843, t. VII, p. 117.

480 S. Kierkegaard, Diario 1849, X A 478; tr. it., nr. 2367, t. VI, p. 52. – Sul «problema di Lessing», mi permetto di rimandare ancora allo studio: «Lessing e il Cristianesimo…», p. 223ss. (cf. anche l’Introduzione alla tr. it. delle Briciole e della Postilla, Bologna 1962, t. I, p. 14ss.). Per un esame più analitico rimando alla tesi del mio allievo: B. Bothe, Glaube und Erkennen. Studie zur Religionsphilosophie Lessings, Meisenheim am Glan 1972.

481 S. Kierkegaard, Diario VII2 B 235: occupa l’intero volume. Altre integrazioni si trovano nel vol. VIII2 B (pp. 5-79). Per ulteriori indicazioni si rimanda all’Introduzione della nostra tr. it. (Padova 1976). Le citazioni seguenti rimandano a questa traduzione. L’importanza per la nostra questione del Libro su Adler, ignorato dalla teologia dialettica, supera quella di qualsiasi scritto: «Il libro è straordinariamente illuminan­te perché esso mostra l’indirizzo di pensiero proprio di Kierkegaard in modo più chiaro di qualsiasi altro suo libro. Se vogliamo avere un’impressione di ciò che significa la dialettica qualitativa, applicata ad una questione del tutto determinata, dobbiamo studiare il Libro su Adler» (Jo. Hohlenberg, Søren Kierkegaard, Copena­ghen 1940, p. 227. È il testo messo come motto alla nostra traduzione citata).

482 Uno stralcio del Libro su Adler dal titolo: «Om Forskjellen mellem et Genie og en Apostel» del 1847, fu pubblicato da Kierkegaard nelle: «Tvende ethisk religieuse Smaa-Afhandlinger» di H. H., nel 1849, S.V. XI, p. III ss. Le nostre citazioni rimandano sempre al testo originale del Libro su Adler e alla nostra traduzione italiana.

483 S. Kierkegaard, Diario VII2 B 256, 9, p. 282s.

484 All’autorità di Cristo e dell’Apostolo deve corrispondere nel credente l’obbe­dienza (Lydighed): «Il dubbio e la superstizione, che rendono vana la fede, hanno fra l’altro messo in disagio gli uomini per quanto riguarda l’obbedire, l’inchinarsi all’autorità. (…) Perciò tutta la speculazione moderna è affettata per aver abolito lobbedienza da una parte e lautorità dall’altra pretendendo di essere ortodossi» (p. 266).

485 S. Kierkegaard, Diario VII2 B 235, p. 78s.; tr. it., p. 214.

486 A questo proposito Kierkegaard, rifacendosi ad Hamann, chiama Pilato nelle Briciole, «… quel grande pensatore e gran saggio, executor Novi Testamenti» (S.V. IV, p. 302; Opere, p. 198s.).

487 S. Kierkegaard, Diario 1837, I A 328; tr. it., nr. 180, t. II, p. 80s. – Parimenti dieci anni dopo nel Libro su Adler: «Cos’è che ha portato l’esegesi e la speculazione moderna fuori strada confondendo la realtà cristiana, ossia come sono arrivate a confondere l’es­senza del Cristianesimo? La risposta più semplice e categorica è la seguente: col riporta­re la sfera del paradosso nell’estetica, si ha il risultato che ogni termine cristiano il qua­le – fin quando resta nella sua sfera – è una categoria qualitativa, quando è posto in una condizione d’inferiorità, è ridotto ad una espressione spiritosa che significa così un mucchio di cose» (Diario VII2 B 235, p. 136; tr. it., p. 270).

488 Così Kierkegaard rigetta la tesi idealistica della «perfettibilità» del Cristia­nesimo (Cf. p. 249). Quindi anche se il Cristianesimo esistesse da 10.000 anni, non si potrebbe in senso decisivo andare più in là dei contemporanei e spiega: «La storia del Cristianesimo non si rapporta affatto direttamente a questa realtà cristiana, come l’esistenza di un albero con la crescita si rapporta al seme» (p. 214).

489 S. Kierkegaard, Libro su Adler, c. II, tr. cit., p. 211-212. (VII2 B 235, p. 76s.).

490 S. Kierkegaard, Esercizio…, II: «Beato colui che non si scandalizza in me»; S.V. XII, p. 162s.; tr. it., Opere, p. 761 a – 762 b.

491 La dichiarazione di Fichte sull’indifferenza della realtà storica, vale per Spinoza e per tutto il pensiero moderno: «Nur das Metaphysische, keineswegs aber das Historische, macht selig; das letztere macht nur verständig. Ist nur jemand wirklich mit Gott vereinigt und in ihn eingekehrt, so ist es ganz gleichgültig auf welche Wege er dazu gekommen ist» (Die Anweisung des seligen Lebens, Vorlesung VI; ed. Medicus, Bd. V, p. 197). È la tesi di Lessing e dell’illuminismo contro la quale Kierkegaard ha opposto l’esigenza della fede nel Cristo storico.

492 Il primo cenno è in un appunto del 1842-43 che contiene il tema centrale della Postilla: «Il rapporto tra l’estetica e l’etica – il passaggio – pateticamente non dialetticamente, qui comincia una dialettica qualitativamente diversa» (Diario IV C 105, p. 414). – Notiamo, en passant, che il termine di dialettica qualitativa è quasi del tutto trascurato dalla ermeneutica kierkegaardiana anche recente (lo ignora l’articolo «Dialektik» di H. Radermacher in Handbuch philosophischer Grundbe­griffe, München 1973, Bd. II, p. 289ss. Lo ignora anche R. Heiss, Die grossen Dialektiker des 19. JahrhundertHegel, Kierkegaard, Marx, Köln-Berlin 1963. Lo ricorda invece G. Capone Braga, «Dialettica», in Enciclopedia Filosofica, Firenze 19672, t. II, col. 434).

493 S. Kierkegaard, Diario 1846-47, VII1 A 182; tr. it., nr. 1267, t. III, p. 242. Un po’ più sotto, nello stesso contesto polemico, si rivendica l’originalità della «dialettica qualitativa» della libertà (VII1 A 191; tr. it., nr. 1276, t. III, p. 250s.). Il termine non si trova ancora esplicitamente nelle Briciole.

494 S. Kierkegaard, La malattia…, P. II, A, C. I; S.V. XI, p. 215; Opere, p. 662 b.

495 S. Kierkegaard, Diario 1850-1851 X3 A 28; tr. it., nr. 2951, t. VII, p. 182.

496 S. Kierkegaard, Diario 1852, X5 A 11; tr. it., nr. 3717, t. IX, p. 186.

497 S. Kierkegaard, La malattia…, P. II, A, C. I; S.V. XI, p. 215s.; Opere, p. 662s.

498 Sul concetto autentico dell’indipendenza dell’io, come essenza profonda della libertà, cf. ancora Diario 1846-1847, VII1 A 181; tr. it., nr. 1266, t. III, p. 240s.

499 S. Kierkegaard, La malattia…, P. II, C. 2: S.V. XI, p. 231; Opere, p. 671 b.

500 Una volta ammesso col Cristianesimo, e contro Lessing, che una salvezza eterna si può decidere nel tempo, si deve anche ammettere che la dannazione eterna si decide nel tempo e quindi l’eternità delle pene dell’inferno (Cf. Diario, Indice: voce «eternità»; t. XII).

501 Qui il «salto qualitativo», quando il peccato si è impadronito dell’io cioè della sua volontà, è lo «stato del peccato»; lo stato nel peccato è il peccato nel senso più profondo; è un peccato più grave dei singoli peccati, è il peccato (p. 678 a) nel senso appunto di «disperazione» (Fortvivlelse) com’è detto nella Malattia mortale (P. I, A B C; S.V. XI, p. 145ss.; Opere, p. 625ss.). La seconda parte porta il titolo: Fortvivlelse er Synden («la disperazione è il peccato», perché deviazione del rapporto a Dio e ripiegamento dell’io sul finito e rifiuto della fede): «Og dette er en af de for hele Christondommen meest afgiörende Bestemmelser, at Modsaetningen til Synd ikke er Dyde, men Tro» (S.V. XI, p. 219; Opere, p. 664).

502 S. Kierkegaard, La malattia…, P. II, B b; S.V. XI, p. 252s., Opere, p. 682 ab.

503 S. Kierkegaard, La malattia…, P. II, B c; S.V. p. 269s., Opere, p. 691s.

504 S. Kierkegaard, La malattia…, P. II, B; S.V. XI, p. 359s. nota; Opere, p. 684.

505 S. Kierkegaard, Esercizio…, III, 4; S.V. XII, p. 221; Opere, p. 790 a.

506 S. Kierkegaard, Vangelo…, Christelige Taler I, S.V. VIII, p. 366; Opere, p. 836 a.

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